Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

venerdì 29 novembre 2013

The importance of being word

Pochi giorni fa mi è tornata in mente una buffa signora che teneva in un caffè un corso di scrittura creativa a cui ho assistito, almeno per una lezione. La signora, sulla cinquantina, capelli corti, un aspetto quasi buddista, ci dette un paio di dritte: la prima era “Non si rilegge”; la seconda “Non si cancellano le parole mentre si scrive”. Suggeriva al limite di metterle tra parentesi. Vedeva il cancellarle come un atto di violenza e insisteva sul loro diritto di esistere sulla pagina, probabilmente per premiarle del viaggio –non sempre facile, lo ammetto- dal cervello fino alla mano. Una visione un po’ sentimentale delle parole.
Un percorso simile lo consiglia anche il libro “Scrivere zen”, dove la Goldberg raccomanda una sorta di scrittura automatica per arrivare dritti al nostro lato spirituale e riversarlo sulla pagina. Della serie: in tanto materiale, qualcosa di buono ci sarà…
Personalmente mi ritengo un po’ più di stampo carveriano per la precisione del lessico e condivido in pieno la sua affermazione più famosa: “le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste”.
E non poteva affermare altrimenti, dato che aveva avuto come maestro John Gardner, un uomo che predicava che esiste un’enorme differenza scrivendo suolo piuttosto che terra e che scriveva: “mettere giù le cose in modo esatto è tutto ciò che si intende per precisione dell’occhio dello scrittore”.
La precisione, quindi, prima di tutto. Il lavoro di riscrittura come assioma fondamentale, affinché la parola sia quella giusta –Carver revisionava i suoi racconti anche trenta volte, amava pasticciarci, come lui stesso diceva; lo stesso vale per i romanzi di Fitzgerald, dove i pezzi erano “rivisti e mediati da tre a sei volte”; ma anche per Flannery O’Connor e Hemingway e Wallace e altri milioni di scrittori.
Certo. Questa precisione non è affatto facile, proprio perché le parole sono un mezzo umano limitato. Virginia Woolf scriveva che “le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente”,dove “vagano qua e là, innamorandosi e accoppiandosi”. Un’immagine molto bella. Che rende perfettamente l’idea di quanto sia difficile accalappiare certe immagini e trasformarle in bianco e nero sul foglio. Le parole immiseriscono le cose più importanti, come dice Stephen King, “rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra mente sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori”. Riassume molto bene Walter Benjamin: “L’opera è la maschera mortuaria dell’idea”.
Sembra quindi che  il nostro rapporto con le parole sia un rapporto difficile a prescindere. Non riusciremo mai ad avere con loro un’unione felice, piuttosto saremo condannati ad esserne schiavi e ingabbiati. E non solo scrivendo, ma anche –e soprattutto- parlando. Nei dialoghi quotidiani, infatti, non è possibile tornare indietro, cancellare. E nemmeno mettere tra parentesi. Uno scenario terrificante, se ci mettiamo a pensarlo.
Per me la soluzione è una sola. E me la dà, di nuovo, Carver:
“ Se non si riesce, dico io, a rendere quello che si scrive al meglio delle nostre possibilità, allora che si scrive a fare?[…] Cerca di farlo meglio che puoi, mettici dentro tutto il tuo talento, ma poi non ti giustificare, non cercare scuse. Risparmiaci i lamenti e le spiegazioni”.
Giusto. Mi piace pensarlo in generale, come assioma di una vita: fare tutto al meglio delle nostre possibilità.

Altrimenti, che senso ha?


                                           

giovedì 21 novembre 2013

Questa è l'acqua, David Foster Wallace


Wallace.
Un uomo che molti, prima ma anche dopo la sua morte, hanno divinizzato. Solo leggendolo si può capire perché.
Aggettivi per Wallace:

irriverente
sarcastico
polemico
grande
immortale
importante

…l’elenco potrebbe continuare per ore.
E nessuno sarebbe per intero Wallace e tutti sarebbero Wallace intero.
Personalmente amo le sperimentazioni linguistiche e quelle narrative. Anche se quello che cerco in un racconto, alla fine, è l’emozione. Emozionarmi per me è il vero leggere, che non significa affatto piangere. Ma mettere in moto qualcosa nel mio cervello. Far sì che il libro sposti i “mobili della mia casa”, come ha sentito dire da Bajani, che  mi faccia venire il dubbio che ci sono mobili, nel mio cervello, che si possono spostare, anche se inizialmente la cosa ti lascia straniato.
Wallace lo fa.
Questo libro è una raccolta postuma di inediti, dove confluisce anche la trascrizione del discorso tenuto da W. al Kenyon College nel 2005 e che dà il titolo alla raccolta. Le maturità di ogni testo sono differenti, dunque. Si parte da racconti scritti nel 1984 –tra cui la sua prima opera pubblicata, Il pianeta Trillafon e la Cosa Brutta- fino a racconti più recenti e più simili alla sua opera più famosa, Infinite Jest. Nella postfazione si spiega la logica con cui sono stati messi insieme. Io la trovo una raccolta eterogenea, un po’ come lo stile di Wallace in generale, dove un più sarcastico e sperimentalista Wallace si affianca a un più giovane ed emozionante Wallace. E va da sé che io preferisca questo ultimo.
Ci sono racconti che ammiro solo perché sorprendenti, irriverenti e perché mi ispirano a sperimentare –cosa buona e giusta. Un po’ come Barthelme, rompe gli schemi mentali tradizionali. Ti libera. Ma Wallace ci aggiunge anche un buffetto sulla guancia, ogni tanto. E una defibrillazione cardiaca. Rende la lettura un’avventura, ma non  trasportandoci, come un Salgari o un London. Semplicemente mettendo una parola dietro un’altra. Accendendo quel pulsante che -ricorda Murakami- si trova sul pannello della coscienza. ON.
Crollo del ’69 è un racconto terribilmente sarcastico, ma che adoro per via di questa cosa che fa, di questo suo scrivere il dialogo tra pensieri. Salta da una testa all’altra dei suoi personaggi, cambiandone il linguaggio, adattandolo: bravissimo.
Ordine e fluttuazione a Northampton ti fa spalancare gli occhi del cervello, ti conduce velocemente verso stradine intricate. Da cui io non sono uscita.
Stesso discorso per Altra matematica. Problema di orientamento mio, si vede.
Ma.
Ma c’è Salomon Silverfish. Un mix intricato di humour e profondità mostruosa. Lancinante, in alcuni punti. Terribilmente romantico –ma MAI MAI sdolcinato- nel dialogo di Sophie, la moglie in fin di vita del controverso Solomon, personaggio tutt’altro che positivo:
È mio marito e io e lui siamo uniti da una cosa chiamata amore che, casomai non l’aveste ancora sentita nominare, non è solo un sentimento, è un modo di vivere la vita con una persona, e la vostra Sophie malata è fatta di questo amore, di questa vita e di questo Silverfish, e la mia vita è la sua e tutt’e due siamo quello che siamo grazie all’altro”.   

E lo splendido Il pianeta Trillafon e la Cosa Brutta. Incredibile come possa raccontare la depressione con dovizia di particolari senza mai scendere nel banale o nel patetico. Una cosa da vero supereroe.
Non so davvero se la Cosa Brutta sia davvero depressione” scrive. Continua poi: “Uno della televisione con lo scilinguagnolo ha detto che secondo certi è come sott’acqua, sotto una massa d’acqua che non ha superficie, almeno per te, che qualunque direzione prendi trovi soltanto altra acqua, niente aria fresca, né libertà di movimento, solo restrizioni e soffocamento, e niente luce. ( Non so quanto sia azzeccato dire che è come essere sott’acqua, ma provate a immaginare il momento in cui vi rendete conto, in cui improvvisamente  capite che per voi non c’è superficie, che potete nuotare finchè vi pare, tanto lì dentro ci affogate […]
 Ultimo pezzo è, come ho detto, la trascrizione del discorso per i laureandi. Che potete trovare integralmente qui:

De Lillo, nella breve prefazione, scrive: “C’è sempre un lettore di più a rigenerare quelle parole. Le parole non smetteranno di pervenirci”. Così come Manguel scrisse: “Ogni lettore esiste per assicurare a un certo libro una piccola immortalità. La lettura è, in tal senso, un rito di rinascita”.

Mi piace vederla così.

Ma senza troppi sentimentalismi.

                                             

mercoledì 20 novembre 2013

Non abitiamo più qui, Andre Dubus

Sebbene non abbia trovato eccellente lo stile di Dubus- anzi, per certi versi ho visto le sue cadute come piccole trappole in cui avrei potuto cadere io stessa- non posso che parlar bene di questi tre racconti dello scrittore di short stories più acclamato dai suoi contemporanei, anche se non il più famoso, forse: Andre Dubus.
Lo stile prende le mosse dal suo amico e maestro Yeats in primo luogo, ma il maestro a cui si ispira è senza dubbio Checov, ripetutamente citato all’interno della raccolta e preso, secondo stesso figlio di Dubus, AndreIII, come mentore.
A Dubus interessava la libertà dello scrivere più che il tornaconto economico e questa è la cosa che più risulta chiara leggendo questo libro. Non c’è menzogna, ma solo una lunga  e profonda ispezione dell’animo umano, un continuo scavare e tentar di comprendere -senza peraltro arrivare a conclusioni moraliste- le dinamiche che legano e slegano i rapporti d’amore, che siano essi iscritti all’interno del matrimonio o al di fuori di esso.
I tre racconti ripercorrono la storia di due giovani coppie legate tra loro da amicizia e tradimenti. Quello che ho trovato stupefacente è la delicatezza con cui descrive le donne. T. Wolff, suo amico e collega, scrive nella postfazione che durante un festival della letteratura Dubus rischiò di impantanarsi in un discorso sul movimento femminista, dichiarando che l’unica cosa che era riuscito a creare era che adesso le donne potevano “indossare vestiti da uomini, prendere il treno per andare  a lavorare e dire bugie tutto il giorno”. Un’affermazione quantomeno pericolosa se non fosse per il fatto che Dubus trovava -e questo si legge in modo chiaro- le donne esseri dotati di “personalità migliori o perlomeno più interessanti degli uomini”, proprio perché non guastate dal continuo desiderio di potere, prerogativa da sempre del mondo maschile.
Consiglio di non tralasciare, se vi trovate questo libro tra le mani -e dovreste, almeno una volta nella vita- sia la prefazione (di N. Manupelli) che la postfazione  (di T. Wolff, per l’appunto).
Credo che questo libro mi abbia aiutato, indubbiamente senza volerlo, a raggiungere la consapevolezza di quello che amo leggere, ovvero il lento lavoro archeologico da parte di uno scrittore di ciò che sta dietro all’atto stesso del vivere.

Perché di storie fantastiche e favolose ne possiamo inventare a migliaia, ma per me non c’è niente che eguagli la meraviglia che provo di fronte alla vita stessa.

                                                          Non abitiamo più qui


domenica 10 novembre 2013

Ho paura torero, Lemebel Pedro

Siamo a Santiago del Cile nella primavera del  1986. La città è sotto la dittatura di Pinochet, che i suoi seguaci chiamano governo militare. Sotto l'apparente calma, ribolle il Fronte patriottico di Manuel Rodrìguez, che lo stesso dittatore definisce “omuncoli, bambini viziati che recitano poesie d'amore e mitragliatrice”. Qui la Fata dell'angolo, un travestito passionale e amante del canto, eccellente ricamatore per le mogli dei generali del governo, si innamora perdutamente del giovane rivoluzionario Carlos, in cerca di un rifugio sicuro per le sue riunioni clandestine. E quale miglior rifugio della soffitta della casa della Fata, innegabilmente la meno sospetta? Per amore lei farà finta di non sapere, qualunque cosa pur di stagli accanto. Dall'altra parte c'è la voce dello stesso dittatore, ma specialmente quella dell'instancabile moglie, a fare da controcanto alla storia, evidenziando i punti di vista opposti e rendendo il libro una satira godibile.

Questo libro è una piccola opera teatrale, in linea con la passione di Lemebel. Il sipario si alza a casa della fatina, che si descrive come farebbe Lemebel stesso, in modo audace e ironico, da checca incallita. Il linguaggio è barocco, molto vivace, alcune volte sfiora l'osceno e in alcuni punti l'ho trovato vischioso, difficile da seguire, seppur in se stesso poetico. Potrei descriverlo come una danza sconosciuta che fatichi a seguire, ma se poi riesci a prenderci il ritmo diventa favolosa e dolcissima. La voce che ho preferito è indubbiamente quella della fatina che, come ho detto, si alterna a quella della moglie di Pinochet -queste parti le ho trovate un po' troppo forzatamente ironiche-, anche se devo ammettere che la scena del compleanno di Carlos –l’amante rivoluzionario-, una scena tenera e romantica, un punto di svolta per il libro in un certo senso, viene contrapposta in modo eccellente a quella del compleanno di Augusto a dieci anni -il dittatore.
L'amore si mescola alla rivolta, come un boa di struzzo colorato in mezzo alle macerie di Santiago. L'amore riduce la Fata “in fin di vita, come una carta velina impregnata dall'umidità del suo alito”. È l'amore consapevole della sua impossibilità, così struggente, a volte, da commuovere che trova nel finale l'unica soluzione degna di esistere.
Il viaggio della Fata e di Carlos in questo libro sono contrapposti: vanno l'uno nella direzione dell'altra senza però mai riuscire a toccarsi.
Ho amato molte espressioni utilizzate da Lemebel e le descrizioni sono quasi sempre sopraffine, ma si sente un po' di forzatura a tratti che personalmente non ho gradito.
Lo scambio finale tra Carlos e la sua improbabile amante è delicato e una delle parti migliori di tutto il libro. Poi il sipario si chiude, si accendono le luci e Lemebel ti riporta alla realtà, lasciandoci l'amaro in bocca leggendo le parole di Carlos:
“La mia fata, pensò. La mia fata inevitabile, la mia fata indimenticabile. La mia fata impossibile, dichiarò a voce bassa osservando il profilo esaltato dal verde azzurro di un riflesso dell'alta marea”.

Decisamente un libro che merita di essere letto.
                                                   


                                                    Diritti_Ritorno_Copertina