Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

martedì 20 dicembre 2016

Io odio John Updike, Giordano Tedoldi

Una raccolta di racconti e un romanzo. Sono queste a oggi le fatiche di Tedoldi, scrittore romano del 1971.
Passo di nuovo in rassegna i titoli dei suoi racconti inclusi nella raccolta Io Odio John Updike che ho appena terminato. Bathos, DB9, L'amore freddo... mi chiedo cosa mi abbiano lasciato. Tra le righe si può leggere una strana violenza, verso l'uomo e la società. A prima vista potrebbe sembrare un Bukowski alla romana, peccato che il nostro autore sia un pariolino e l'associazione non regga, quindi.
Tedoldi ha un linguaggio studiato, una voce un po' cupa e  la struttura dei suoi racconti non è lineare. Questo non necessariamente è un male, perlomeno per me, ma la valanga di parole che lascia in queste pagine sembra piuttosto  lo sfogo di un ragazzino ricco, viziato e annoiato. E con molta probabilità lo è. Non mi risulta affatto simpatico e non mi fa fare salti di gioia.
Ogni singolo racconto difetta di un particolare a cui io, lettrice, sono particolarmente attenta: le emozioni. Non c'è amore, in queste pagine. Lo sguardo verso il mondo è vitreo, assente. I suoi protagonisti sono passivi, latenti. Mi stupisce quindi il clamore che si è fatto attorno a questo libro.

Ma forse il mio è un giudizio personale. Ho provato una vera e propria stizza  leggendo, cosa che mi non capita di frequente. Magari era questo l'intento di Tedoldi? Tutto è possibile, anche se resta fermo un punto: questi racconti non mi hanno lasciato nulla, non mi hanno coinvolto, e questo segna un punto a sfavore per lo scrittore romano.  






sabato 17 dicembre 2016

io non faccio rumore

Io non faccio rumore.
Amo il silenzio, l'eco dei miei pensieri che si infrangono.
E io non faccio rumore.
 Mi vesto di quiete e ti passo accanto, invisibile, sono una comparsa fuori dalla scena.
Eppure io non faccio rumore.
Sono il vento che piega l'erba, disperde le foglie, rovescia le pagine di un libro.

Ma io non faccio rumore.
Sono presenza.





Foto: Francesco Romoli

giovedì 15 dicembre 2016

#14

Scrivere non è niente più di un sogno che porta consiglio



JORGE LUIS BORGES




Foto: Francesco Romoli




venerdì 9 dicembre 2016

Benedizione, Kent Haruf

Una sera mi trovavo a casa di amici, cari amici, un gruppo di scrittura con cui ho un legame molto particolare. Uno degli ospiti , Athos Bigongiali, mi ha suggerito questo libro, piuttosto sicuro che mi sarebbe piaciuto. Non era la prima volta che ne sentivo parlare. Un caso letterario, mi aveva detto un altro caro amico, una casa editrice praticamente sconosciuta. Durante il festival della Letteratura di Mantova, proprio nello stand dedicato ai consigli del libraio, eccolo di nuovo lì, con il bollino rosso. Non sono riuscita più ad ignorarlo e me lo sono portato a casa insieme al Lambrusco e alla Sbrisolona. L'ho posato accanto agli altri e ho atteso che venisse il suo turno. Me lo sono portato dietro una sera mentre aspettavo il turno dal dentista. Ed ecco la rivelazione: come d'incanto Haruf mi ha trascinato ad Holt, il paesino di provincia dove si svolge questo libro. Ero al capezzale di Dad,  insieme a Mary,  ho conosciuto Alice, la piccola orfana della casa accanto, ho tifato per Lyle, il reverendo anticonformista che proclama il perdono in tempo di guerra al terrorismo. Questi personaggi sono persone. Ed è qui che la bravura di Haruf si distingue. Ti fa amare questa gente, che diventa la tua gente, sebbene tu non abbia una ranch accanto a loro, sebbene tu non vada in chiesa con loro la domenica. Eppure è tutto così familiare, non già visto, ma vicino al cuore. Davvero un autore fantastico, che con una prosa lieve racconta queste vite banali, quotidiane, ma lo fa in punta di piedi, quasi senza voler disturbare l'incanto che lui stesso crea. Gestisce i problemi morali senza mentire, ci rivela il bene che esiste nell'uomo senza escludere il male.
Un equilibrio davvero da numeri uno.

Inutile dire che non potrò evitare gli altri due libri. 






lunedì 5 dicembre 2016

Il sale della vita:5

Riscoprire il piacere del Natale progettando l'albero e leggendo letterine, cantare a bassa voce Santa Claus is coming to town, essere ansiosi di impacchettare un regalo, guardare le ricette dei dolci per la cena, accendere candele rosse e appendere lucine e ghirlande, scrivere biglietti di auguri e fare la lista delle mail e dei messaggi, sorprendendosi di quanti amici tu abbia intorno...





venerdì 2 dicembre 2016

Residui - Carlos Drummond de Andrade



Di tutto è rimasto un poco,

Della mia paura. Del tuo ribrezzo.


Dei gridi blesi. Della rosa

è rimasto un poco.


È rimasto un poco di luce

captata nel cappello.

Negli occhi del ruffiano

è restata un po' di tenerezza

(molto poco)


Poco è rimasto di questa polvere

che ti coprì le scarpe

bianche. Pochi panni sono rimasti,

pochi veli rotti,

poco, poco, molto poco.


Ma d'ogni cosa resta un poco.

Del ponte bombardato,

delle due foglie d'erba,

del pacchetto

- vuoto - di sigarette, è rimasto un poco


Che di ogni cosa resta un poco.

È rimasto un po' del tuo mento

nel mento di tua figlia.


Del tuo ruvido silenzio

un poco è rimasto, un poco

sui muri infastiditi,

nelle foglie, mute, che salgono.


È rimasto un po' di tutto

nel piattino di porcellana,

drago rotto, fiore bianco,

di rughe sulla tua fronte,

ritratto.


Se di tutto resta un poco,

perché mai non dovrebbe restare

un po' di me? Nel treno

che porta a nord, nella nave,

negli annunci di giornale,

un po' di me a Londra,

un po' di me in qualche dove?

nella consonante?

nel pozzo?


Un poco resta oscillando

alla foce dei fiumi

e i pesci non lo evitano,

un poco: non viene nei libri.


Di tutto rimane un poco.

Non molto: da un rubinetto

stilla questa goccia assurda,

metà sale e metà alcool,

salta questa zampa di rana,

questo vetro di orologio

rotto in mille speranze,

questo collo di cigno,

questo segreto infantile...

Di ogni cosa è rimasto un poco:

di me; di te; di Abelardo.

Un capello sulla mia manica,

di tutto è rimasto un poco;

vento nelle mie orecchie,

rutto volgare, gemito

di viscere ribelli,

e minuscoli artefatti:

campanula, alveolo, capsula

di revolver... di aspirina.

Di tutto è rimasto un poco.

E di tutto resta un poco.

Oh, apri i flacone di profumo

e soffoca

l'insopportabile lezzo della memoria.


Ma di tutto, terribile, resta un poco,

e sotto le onde ritmate,

e sotto le nuvole e i venti

e sotto i ponti e sotto i tunnel

e sotto le fiamme e sotto il sarcasmo

e sotto il muco e sotto il vomito

e sotto il singhiozzo, il carcere, il dimenticato

e sotto gli spettacoli e sotto la morte in scarlatto

e sotto le biblioteche, gli ospizi, le chiese trionfanti

e sotto te stesso e sotto i tuoi piedi già rigidi

e sotto i cardini della famiglia e della classe,

rimane sempre un poco di tutto.

A volte un bottone. A volte un topo.



Foto: Alessia Zanzi

mercoledì 30 novembre 2016

Carne viva, Merritt Tierce

Già il titolo di questo libro dice molto. È la carne viva che si contrappone a quella morta servita nei piatti che Marie porta su e giù ogni sera durante il suo turno al Ristorante. Ma è anche e sopratutto la carne che vuole essere viva, che lo desidera così intensamente da far male. L'unica soluzione per Marie è allora farsene di più, spingersi oltre per non sentire più quel dolore. Dopotutto il dolore della carne è più sopportabile di quello che porta dentro.
Una vita cominciata con il piede giusto, la sua: voti alti a scuola e la prospettiva  di un futuro brillante. Tutto però finisce presto, a 17 anni, quando rimane incita e partorisce una figlia. Sposa il padre della bambina, un uomo che la ama, che farebbe di tutto per quella nuova, piccola famiglia. Ma a Marie non basta. Oppure non ne è proprio capace. Spingerà la sua vita al limite, tra droghe alcol e sesso, in un oscillare continuo tra vita e morte, desiderio e angoscia.
Le quinte di questa storia sono un Ristorante, con la R maiuscola, uno qualsiasi, uno dei tanti in cui Marie ha lavorato, dove si intrecciano le vite di lavapiatti messicani e camerieri africani. E ragazze americane che ancora non sanno cosa fare con la propria vita, letteralmente.  Ed ecco che lavorare crea quello spazio grigio, di non pensiero, che calma e appaga, nonostante la stanchezza fisica e le umiliazioni subite da uomini che le danno pacche sul sedere o la chiamano Stellina.
Un romanzo d'esordio che colpisce, questo della Tierce, e una prosa al limite del glaciale. Ma non potrebbe essere altrimenti. Non si può descrivere la disperazione in modo disperato. La si può porgere su un piatto e aspettare solo che qualcuno la noti, senza pretenderlo.

Un libro che coinvolge, non ti molla. Perfetto nella sua imperfezione.



giovedì 24 novembre 2016

A volte ritorno... tiriamo le somme



Quando ho aperto questo blog, nel 2013, ho scritto che sarebbe stato un blog non necessario. Ho avuto dannatamente ragione. Ma ho affermato anche che sarebbe stata la mia palestra e qui ho trascurato le mie intenzioni. Mi sono comportata esattamente come si comportano quelle persone che tanto disprezzo, quelle che vanno in palestra per sfoggiare il nuovo completino e non per allenarsi davvero. Questo perché il pubblico si differenzia psicologicamente dal privato. E se nel privato tu vai libero, ti comporti come meglio credi, nel pubblico cerchi di non deludere le aspettative (queste odiose aspettative!).

Ed ecco che anche io sono caduta nella trappoletta, andando a inciampare là dove non avrei dovuto, dimenticando il perché. Perché ero qui? 

Ma sopratutto, perché ci torno?

É il nido, come direbbe Holmes. Si torna al nido. Dopo essere andati ad esplorare il mondo, il nido è la base sicura dove tornare. Dopo tanto tempo mi sono resa conto che la base sicura per me non è un luogo, non è una persona (e qui Holmes probabilmente mi bacchetterebbe, ma tant'è), ma la scrittura. Le parole, queste letterine ordinate l'una accanto all'altra, il rumore rassicurante dei tasti, la luce nevrotica che viene dal pc...io amo tutto questo. Amo scrivere, e anche se non è necessario il mio sproloquiare in lemmi, probabilmente lo è per me.

Quindi torno in questo blog fantasma.

Torno sperando, torno amando, torno con il sorriso e citando la frase di benvenuto che ho appeso alla mia porta:


              Lar doce lar