Dall'altra
stanza arriva un grido. Fuori è notte, il tuo orologio segna le tre e venti. Ti
giri su un fianco, pensi che prima o poi
smetterà. Ma il grido si ripete. Aiuto. Per favore, aiutami. Schiacci la
testa sotto il cuscino, le urla sono solo più sottili. Ti prego, ti prego,
aiuto.
Ti
alzi e ti accorgi che fa caldo in casa. Hai di nuovo dimenticato il
riscaldamento acceso. Lei non lo avrebbe
fatto, lo avrebbe spento prima di andare a letto. Non dimenticava nulla, prima.
Nel
corridoio le grida sono più forti, apri la porta della stanza e la sua figura
ti appare deformata nell'oscurità, rigida, ha una mano alzata come per
difendersi, indica l'orologio sul suo comodino.
Falle
smettere, Marco. Vogliono uccidermi, falle smettere.
Stacchi
veloce la presa dell'orologio e le luci si spengono. Lei ti crolla tra le
braccia appena ti siedi sul letto. Ha la maglietta bagnata di sudore e i
capelli incollati al viso.
Domani,
ti riproponi, imposterò il timer sul termostato.
Alle
undici di mattina suona il campanello.
Scatti in piedi appena ti accorgi che fuori c'è il sole e tu non
dovresti essere lì, ancora a letto. Spalanchi la porta della sua stanza: lei
non c'è. Il letto è rifatto alla perfezione, nemmeno un piega. Scendi veloce le
scale, la cerchi in cucina, nel bagno. Il campanello suona di nuovo, lo avevi
dimenticato, ti chiudi con un nodo la vestaglia, ti guardi di sfuggita allo
specchio, sistemando i capelli grigi dietro le orecchie, sono troppo lunghi, il
barbiere, maledizione, devi ricordarti di chiamarlo, ma cosa ti viene in mente,
adesso, devi trovare lei, aprire la porta, devi...
Accanto
a tua moglie c'è una donna giovane, in divisa. Le tiene una mano sulla spalla.
Farfugli
qualcosa mentre la donna ti chiede se la persona accanto a lei è Marta Corbi.
La signora abita qui? Mentre ti parla noti una macchia di fango sui pantaloni
del pigiama di Marta. Glieli hai messi puliti solo ieri sera.
Mi scusi,
mi scusi davvero, io credevo di avere chiuso a chiave la porta di
ingresso, forse ho dimenticato, la notte dormiamo poco. Siamo soli, qui, io e
lei.
Signor
Corbi, sua moglie sta bene, ci hanno chiamato dal negozio di fiori qui vicino,
la conoscono.
Sì,
le piacciono i fiori.
Quando
vi sedete a tavola lei non vuole mangiare. Non ho fame, dice. Incrocia le
braccia e ti fa il broncio. Guarda che più tardi viene il dottore e glielo dico
che non hai mangiato, minacci. Prendi la forchetta e infilzi due ravioli
collosi, apri la bocca, le dici, di più, insisti, di più!
Lei si volta lentamente, le braccia sempre
incrociate sul petto magro, ti guarda con aria di sfida.
Di
più non riesco, Katia.
Scagli
il piatto contro il muro.
Maledizione, non sono Katia, non lo vedi? Non
lo vedi che sono tuo marito?
Lei
ti guarda spaventata, trema dentro a quel corpo fragile e tu la abbracci. Non è
colpa tua, le dici mentre la culli, non è colpa tua, ripeti.
Senti
il suo corpo che trema sotto di te, sta piangendo.
Ricomincia a urlare, quel grido ti lacera, ti tappi le
orecchie ma non riesci a non sentirla, Katia, urla, la mia bambina, me l'hanno
ammazzata. Torneranno, lo vuoi capire? Torneranno e prenderanno anche me, e non
sai, non capisci quanto davvero sappia, quanto davvero si ricordi, sai solo che
ti ferisce le orecchie, piantala!, le urli tu, inciampi in una sedia, quasi
cadi, ma ti reggi al tavolo con le mani.
Corri
in cucina e le prendi le medicine, versi l'acqua in un bicchiere, estrai il
contagocce, una, due...cinque...dieci, conti veloce. Ti fermi. Lei continua a urlare, dondolandosi
avanti e indietro. Guardi quel corpo che si sta rimpicciolendo sotto il tuo
sguardo,giorno dopo giorno, ora dopo ora.
Butti il contagocce nel lavandino e rovesci nel bicchiere tutto il
flacone.
La
afferri per le spalle. La devi piantare, Marta, verrà su tutto il vicinato, se
non la pianti.
Portami
da Katia, portami dalla mia bambina, ti prego!
Va
bene, calmati e ti ci porto. Più tardi, però, quando ti sarai calmata. Ti porto
io.
Cos'è?,
ti chiede quando le porgi il bicchiere.
Solo
un po' d'acqua, Marta, bevi. Così ti calmi.
Ma
è amara!
Ti
sembra così perché hai pianto. Bevi.
Posa
il bicchiere vuoto davanti a sé.
Sei
un bravo ragazzo, ti dice.
Te
lo disse anche il primo giorno che vi siete conosciuti. Chiudi gli occhi e lei
ha quel vestito a fiori , era così bella, tu le sei accanto, felice,
maledettamente vivo, pieno di futuro, per sempre, per un momento.
Almeno
per un momento.
Quando
apri gli occhi fuori è di nuovo notte e il tuo telefono segna le due e
quarantacinque. Sei sudato e ti fa male il collo, ti sei addormentato sulla
poltrona. C'è caldo in casa, di nuovo hai dimenticato di impostare il timer del
termostato. C'è anche silenzio, in casa.
Ti
alzi e vai in camera, apri l'armadio e tiri fuori il completo di velluto, lo
indossi e ti accorgi che ti sta grande, anche tu sei rimpicciolito. In bagno ti
sistemi i capelli, li spingi indietro con il pettine.
Scendi
le scale e ti avvicini al telefono. Componi il numero con lentezza. Dopo molto tempo risponde una voce impastata
dal sonno.
Pronto?
Una
pausa. Senti il rumore di un interruttore, un fruscio di vestiti, un bambino
che piange.
Papà
sei tu? Si sono svegliati i bambini, scusa, ma che succede?
Katia,
riesci a dire alla fine. È per la mamma ...