Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

giovedì 28 dicembre 2017

Come diventare vivi, un vademecum per lettori selvaggi, G. Montesano

Come si fa a diventare vivi? Ma prima di tutto, cosa significa?
Ci alziamo la mattina, caffè, doccia, auto, lavoro, poi di nuovo a casa, cena veloce, un film sul divano per rilassarci, ce lo meritiamo, no?, dopo una giornata così faticosa, sempre di corsa, magari una sbirciatina a Facebook per salutare gli amici, guardare qualche foto… poi a letto. 
E la mattina si ricomincia. 
In questo lasso di tempo, meno di 24 ore, cosa ci fa sentire vivi?
Montesano, in questo librettino di poco più di 150 pagine e che sembra leggero come il volo di una farfalla, ci pone in realtà un grande interrogativo. 
E risponde: Anche nella prigione dei giorni in cui tutto sembra impossibile, anche nella mia miserabile paura di vivere. Io voglio rinascere…E comincerò dalla frase interrotta, e scenderò in quel mare in cui le ferite mal curate si schiuderanno come bocche innamorate , e faranno entrare in quella realtà in cui si vive senza sprecare la vita… 
Vivere davvero è non sprecare la vita. E per non sprecare la vita dobbiamo fare quello per cui siamo programmati fin dalla nascita: pensare. E per aiutarci a pensare dobbiamo leggere davvero, ascoltare davvero, guardare davvero. La formula di Montesano è semplicissima: troviamo (imperativo) il tempo per leggere, per vivere, per amare. 
Ma per far questo bisogna fare attenzione: attenzione a non rifiutare l’estraneo, perché è proprio questo che allarga la nostra mente; attenzione alle parole che leggiamo, solo così potremo leggere in profondità e avere rivelati il mondo e noi stessi; attenzione alle nuove tecnologie che ci inducono ad entrare nel mondo della chiacchiera, a ignorare le cose che contano davvero, distogliendoci dall’allenare le nostre menti; attenzione soprattutto a non diventare dei doxosophoi sapienti solo nel dire la propria opinione. E così, pagina dopo pagina, Montesano ci ricorda che leggere i maestri, Dostoevsky, Shakespeare, Pirandello, Dante, ascoltare i maestri, Beethoven, Wagner, guardare i maestri, Picasso, Botticelli, ci aiuta in questa operazione di risveglio. 
Ma bisogna volerlo. Dobbiamo voler vivere, voler essere uomini, volere la verità. E chi vuole la verità, come dice citando Platone, bisogna che sfreghi tra di loro le idee con le cose a cui si riferiscono, le sensazioni con le idee, le cose con le sensazioni, le visioni con le idee, le parole con le immagini, le parole con le idee e le immagini con le cose, domandando e rispondendo in discussioni benevole e senza odio, e il cui oggetto non sia la mia o la tua verità, finché, da questo sfregare parole con idee e idee con cose, non sprizzeranno, come da sassi fatti cozzare tra di loro, scintille di fuoco che accenderanno la conoscenza. 
Wow. Impossibile dirlo con parole migliori. 
Quello che ho trovato in questo libro è stata una sorta di incoraggiamento. Non tanto per leggere in modo selvaggio, quello lo faccio già da tempo, ma per non smettere di farlo.  Come se l’autore alla fine delle pagine mi avesse detto: ok, finora hai fatto un buon lavoro, ma non rinunciare, non entrare nella zona confort, non farti prendere dalla falsità marcisca della nube della chiacchiera, non ascoltare i guardiani del penitenziario emotivo.  
Vai. 
Leggi, ascolta, guarda. 

Vivi. 



domenica 24 dicembre 2017

La polvere magica, di Giulia Romoli

È il dicembre del 1987, la vigilia, esattamente, e ho nove anni.
Sono tutta presa dall'organizzazione della magica notte, quando arriverà il magico babbo con i miei magici doni. Raddrizzo le noci dorate appese all’albero(un lavoretto di scuola del quale sono orgogliosa: spero che Babbo Natale lo noti); corro in cucina a preparare latte e biscotti, piegando con cura la salvietta; spazzo sotto l'albero per assicurarmi doni privi di aghi di abete; faccio le prove davanti allo specchio per la versione angelica e un po' stupita di me che ho deciso di mostrare a Babbo Natale. Sì, perché stanotte, ho deciso, ce lo becco. È un progetto che porto avanti da un anno. Ho programmato tutto (pisolino pomeridiano, caffè) e sono certa di riuscire. Saltello da una stanza all'altra, facendo suonare con un dito le campanelle delle decorazioni appese ovunque.
La mamma e il papà sono in salotto, presi dalle faccende da adulti.
«Ora della nanna», dice la mamma posando nel cestino il lavoro a maglia: un nuovo maglione deforme. Ci prova sempre, la mamma, ma proprio non riesce. Tra poco, quando si accorgerà che le maniche sono troppo corte o il collo troppo largo, bofonchierà, e quando lo avrà finito come al solito  si metterà a leggere, una cosa che le viene decisamente meglio.
Mi infilo sotto le coperte tiepide di Scaldasonno, mi stringo al braccio di mamma, chiudo gli occhi e fingo un letargo immediato. Sul comodino Topolino indica con le braccia le nove e trenta: ho un bel po' di tempo da occupare. Prendo la torcia e il libro da sotto il letto e comincio a leggere sperando che la pentola magica di Taron mi tenga sveglia.
Sono le undici quando sento i primi rumori sospetti. È presto però. Babbo Natale arriva in anticipo? Sbagliato a rimettere l'orologio? Allungo l'orecchio alla porta. Ecco, il bicchiere. E questo è il rumore del piattino, ne sono certa. Se avessi avuto un camino sarebbe stato tutto più facile, avrei sentito il tonfo, ma al più qui c'è la cappa della cucina e Babbo Natale proprio non ci passa.
In punta di piedi, scalza, esco dalla stanza. Percorro il corridoio. Mi acquatto dietro ai muri. Tengo le orecchie dritte come un labrador. Faccio capolino in soggiorno: ci siamo.
Sulle prime non capisco niente: vedo la mamma che sorseggia il latte di Babbo Natale e basta. Ma che fai? vorrei dirle, quello è per lui, non per te! Ma poi ecco il papà, le mani cariche di pacchetti che si avvicina all'albero. Mette giù i pacchetti. Li sistema a ventaglio. Sorride alla mamma che nel frattempo ha finto il latte e che si sta trattenendo dal lavare il bicchiere. Si abbracciano. Si baciano. Buon Natale, buon Natale. Si avviano verso la loro stanza. Buio. 
Ce l'ho beccato davvero, Babbo Natale. 
Il ritorno al mio letto è una specie di travaglio. Piango lacrime calde di delusione, amare come il fiele. È quasi Natale e io detesto il mondo intero. 
La mattina, quando mi sveglio, il sole entra di prepotenza nella stanza, conquistandosi il tappeto a vista d'occhio. Non mi va di alzarmi. Durante la notte il mio sonno si è popolato di folletti, fate, gnomi in dissolvenza, come pastiglie effervescenti.
È la mamma, al solito, che viene a prendermi. È rossa in viso, sorridente. 
«Eli, tesoro! Sveglia pigrona! È Natale. Auguri, amore mio» e mi stringe e mi bacia tanto forte da privarmi del respiro per un attimo. Mugugno. Non sono ancora nell'età della finzione, ho i sentimenti che  mi si spalmano in faccia.
«Che c'è, tesoro? Non vuoi vedere cosa ti ha portato Babbo Natale?». È un po' delusa. Il rossore viene riassorbito nelle sue guance. «Vediamo... sei stata troppo cattiva e hai paura che non ti abbia portato niente?»
«Vi ho visto, stanotte. Tu e papà che sistemavate i regali sotto l’albero», annuncio glaciale.
Lei inspira e rimane così, le spalle contratte, la bocca chiusa, trattiene il fiato come se volesse inghiottirlo. Alla fine vincono i polmoni e si lascia uscire uno sbuffetto dal naso. Comincia con il tono più sommesso che conosco.
«Ormai sei grande e capirai che...»
«Mi avete preso in giro»
«Ma no, non è quello...»
«Nemmeno la fatina dei dentini?»
Balbetta un no.
«Gnomi? Folletti?»
No. No.
«Uomo nero?»
No. 
Sospiro di sollievo.
«Befana?»
«Be', quella esiste. È la sorella di tua nonna, la zia Alberta»
Ridiamo insieme.
«Senti Eli, ti ricordi quella storiella che ti raccontavo da piccola, quella della bambina che schioccava le dita, diceva la parola magica e le cadevano dal cielo dolci e caramelle?»
«Zim Zabardin!»
«Esatto. Quante volte hai provato a farlo? Fino a che non hai capito che era solo una storia, una bella storia»
Mi prende la mano.
«Babbo Natale è lo stesso: una bella storia»
Mordicchio delusa il lembo del lenzuolo che sa di mamma e lavanda. Lei mi abbraccia e mi posa le labbra sulla fronte.
«Sai, c'è un vantaggio in tutto questo», continua.
Penso alla delusione che mi sta mordendo ancora i piedi e aggrotto le sopracciglia.
«Da oggi puoi scoprire un altro piacere, migliore di quello di ricevere regali da un pancione vestito fuori moda»
Ho i miei dubbi, mamma, penso.
«Dai, andiamo intanto a scartare i regali. Poi te lo dico», conclude.
Nonostante tutto sono eccitata mentre strappo la carta: è un regalo gigantesco, una casa colonica per le mie bambole. Tanti piccoli mobili rifiniti in stile vittoriano. Un ascensore che funziona davvero. Uno specchietto a forma di fagiolo dove tuffarmi per refrigerarmi dalla calura. Un pratino all'inglese.
Verifico che il piacere di ricevere regali è ancora intatto. I regali hanno un'aria meno brillante di polvere magica, ma me ne dimentico mentre sistemo le mie bambole sopra il minuscolo divano imbottito e sul prato, a tirare la palla al cane. 
«Vestiti ora», mi dice la mamma «ti porto in un posto»
Le obbedisco silenziosa. Ho la sensazione che questa sia una specie di iniziazione. Salirò lo scalino del mio essere adulta, oggi, penso orgogliosa mentre mi imprigiono in uno dei maglioni della mamma: busto troppo stretto.
Lei è già sulla soglia, con in mano un pacchetto colorato e due grandi borse di carta. Scendiamo le scale del condominio in silenzio, lei davanti e io dietro. Sta sorridendo, lo so anche se non riesco a vederla in faccia, perché avverte quella curiosità elettrica che irradio. Al secondo piano si ferma davanti a una porta grigia.
«Sai chi abita qui?», mi chiede la mamma.
Annuisco. È la casa di Giovannino, anni sei, il bambino con le camicie a quadretti della Caritas. Il bambino delle collette per la merenda. 
Bussiamo e dopo pochi secondi la faccia tonda e un po' assonnata di Giovannino si incastra nello spiraglio della porta. Poi riconosce la mamma e spalanca tutto: occhi, bocca, porta.
Il soggiorno è decorato con lucette intermittenti e campanellini, palline spaiate, babbi Natale un po' sgualciti, una renna di peluche dal pelo scompigliato. Su un tappeto logoro ci sono quaderni e libri. Sulla tavola i bricioli di una colazione recente.
«A Giovannino piace tanto leggere, sai?», mi dice porgendogli il pacchetto colorato. Intanto dalla cucina è comparsa anche la mamma di Giovannino.
Dalle buste mamma estrae dei vecchi giornalini che avevo dimenticato, vestiti per Giovannino, alcune scatole di pasta, biscotti, tonno, pane in cassetta.
Giovannino strappa la carta del suo regalo, la scava come un cucciolo che vuole continuare a giocare. Emette gridolini di gioia quando vede i libri, abbraccia la mamma, si mette a sfogliarli avido, ringrazia ancora la mamma, poi me.
Ci fermiamo quasi un'ora a casa loro, sommerse dalla loro felicità. E dentro di me sento quella sensazione tutta nuova, inesplorata. Il piacere di cui parlava la mamma. Un piacere che si allarga dentro di me, che mi riempie completamente e mi fa sentire grande e piccola allo stesso tempo.
Mentre usciamo mi sembra che tutto il mondo brilli di polvere magica.


È il Dicembre del 2000, la vigilia, esattamente, e ho ventidue anni. 
Le mie mani riempiono piatti di plastica. Arriva Pino, per primo.
«Lasagne?», chiede. È un ometto basso. Risiede all'angolo tra il negozio di calze e la caffetteria insieme al suo cane, Argo. Letto cartonato. 
Gli passo un piatto fumante. 
Dietro di lui aspetta Rosa, occhi grandi e liquidi, dilaganti. È la donna degli stracci. Ringrazia per le lasagne e subito si mette a confabulare di qualcosa con il suo vicino al tavolo. 
La sala della mensa dei poveri è piena di gente in fila per la sua porzione di lasagne e pollo arrosto. Un vera cena da vigilia di Natale. Li guardo e sono felice. Mi godo quella sensazione che ho ormai interiorizzato, che non è più nuova, ma che non smette mai di sorprendermi. 
E tutta la sala brilla di polvere magica.









lunedì 11 dicembre 2017

Nelle terre di nessuno, C. Offutt, una quasi recensione

Quest’anno, al Pisa Book Festival, sono andata decisa su quale libro comprare: Lincoln nel Bardo, il nuovo romanzo di Saunders. Dopotutto, la Minimum fax è presenza fissa, in quanto editore indipendente. Mi infilo quindi tra la folla decisamente numerosa delle sei della domenica pomeriggio e, mappa alla mano, trovo lo stand. Do un’occhiata veloce sul banco e non lo vedo: strano, penso, s’è appena vinto il Man Booker Prize questo libro, e non è in pole position? Allora faccio la scema e chiedo: ma dove li tenete i libri di Saunders? La ragazza si spacca in quattro per mostrarmi la nuova bellissima copertina di Dieci dicembre. Poi mi mostra Nel paese della persuasione. Sì, le faccio, questi li ho già, cercavo il romanzo, quello nuovo. 
Ah, mi fa lei, ma quello non è nostro! È Feltrinelli! 
Come Feltrinelli? Avete pubblicato tutto Saunders finora e il romanzo è Feltrinelli? 
La ragazza mi guarda con un mezzo sorriso. Fanno sempre così, mi dice. Li scopriamo noi e poi quando sono già famosi se li prendono e li fanno vincere lo Strega… e mi mostra la nuova copertina di Sofia si veste sempre di nero, di Cognetti. Sto quasi per andar via, delusa e rammaricata per la povera casa editrice scopritrice di talenti a cui fregano i romanzi all’asta, quando sollevo una copertina rossa e un nome nuovo. Diciamocelo: io, i titoli della Minimum fax li conosco tutti, anche prima che escano in libreria. Ma quello no. Quello mi è nuovo. Chi è? , chiedo alla ragazza. Lui è bravo, mi fa mentre cerca di ascoltare la signora accanto a me che ha due libri in mano. Ma questo com’è?, bela la tizia. Ha in mano A pesca nelle pozze più profonde. Rispondo io. Questo è per gli addetti ai lavori, signora. Vuole un Cognetti? Si prenda Sofia e non ne sarà delusa. La signora mi dà retta, paga Sofia e se ne va. Io resto con Chris Offutt in mano. Nelle terre di nessuno. Quarta di copertina: 

Insomma, quel vento portò l’odore di Dorothy in tutto il bosco, e l’odore attirò un orso. D’inverno dormono, e quando si svegliano sono così affamati che si mangerebbero un’incudine. L’orso la seguì per un quarto di miglio e Dorothy non se accorse mai. Forse cantava, non lo so. Per una donna cantare per la propria bambina è naturale come per un orso mangiare carne. Non si può dare la colpa alle colline per quello che ci succede in cima. Qualcuno incolpa Dio, ma non credo che lui si preoccupi troppo di quello che succede lassù.

Tra poco esploderà anche lui, mi fa la ragazza. Come Cognetti e Saunders. Abbiamo già intenzione di pubblicare altri suoi libri. insomma, inutile dirlo, mi convince al volo, sgancio il contante e me lo infilo nella borsa. 
Non amo leggere le recensioni prima di iniziare un libro, quindi, una volta a casa, mi tuffo nelle pagine. Il primo salto, però, è come buttarsi in un laghetto gelato. Nonostante io provi a pestare i piedi, il ghiaccio non si rompe e resto lì, infreddolita e delusa. Ma sono racconti e non mi do per vinta. La perseveranza mi premia. Non tutti i racconti sono ghiaccio che non vuole rompersi. Andando avanti nella lettura inizio a comprendere il mio disagio. In realtà la scrittura è estremamente precisa, lineare, chiarissima. È uno stile che descrive senza trasmettere emozioni. Storia dopo storia, personaggio dopo personaggio, ci si addentra in un Kentucky fatto di alcol, degrado, occasioni perdute, miseria, superstizione. Un mondo che per me era quasi sconosciuto. Molti i racconti riusciti al cento per cento, tra cui Luna calante, Blue Lick e Zia Lith, l’ultima levatrice, uno dei miei preferiti, dove i personaggi finiscono in una spirale ineluttabile di semi follia, in mezzo a credenze antiche come il mondo e rimpianti. Insomma, chiudo l’ultima pagina quasi con sollievo. Ed eccolo, il mio disagio, svelato nella sua elementare forma umana: tutta questa brutalità, questa mancanza di redenzione, questi cattivi odori, cattive azioni, il menefreghismoo, l’alcolismo, la vecchiaia, insomma, questi racconti concentrano tutto quello che un uomo preferisce fingere di non vedere. E qui allora sta la sua forza: costringerti a farlo, farti scendere dalle nuvole dorate in cui vorresti essere leggendo un libro solo per svagarti. Ti presenta la realtà nella sua versione più ruvida. E attecchisce. Eccome se attecchisce. Ti resta addosso una sensazione che bella non lo è affatto, ma sai che è vera. E come al solito se c’è una cosa che apprezzo è proprio questo in un libro, la sua onestà. 
Quindi a Offutt un bel voto, certo. Anche alla mia casa editrice preferita, ovvio. Che come al solito non sbaglia un colpo.