Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

martedì 19 giugno 2018

Con un abbraccio senza tempo - Agota Kristof

Non riesco ad abbassare le braccia
da quando ti ho abbracciato
lo so sei ancora qui si è chiusa
la porta alle tue spalle eppure
tengo il tuo corpo tra le braccia

Lo so sei ancora qui immobile
Sto in piedi le ali nere del tempo
hanno già attraversato anni
dal suo oscuro passaggio furtivo
è scappato un minuto

Con un abbraccio senza tempo
da quando ti ho abbracciato
non riesco ad abbassare le braccia
sono immobile statua centenaria
chiuso tra le mie braccia di pietra
so che sei ancora qui




Foto: Francesco Romoli 


lunedì 22 gennaio 2018

Il libro dell'acqua, Eduard Limonov

Il 2018 per me è iniziato in Russia. O meglio, in Ucraina, a Kharkov. Qui comincia la storia di Limonov. Personaggio controverso, definito scrittore e politico russo. Ma dirlo così è riduttivo. Limonov me lo ha fatto conoscere Carrere, che ha scritto la sua splendida biografia. Passare a leggere Il libro dell’acqua è stato un passo necessario.
Eduard Limonov, il cui vero nome è Eduard Veniaminovich Savenkonasce, nasce in Russia come poeta. Diventa scrittore grazie al libro Io,Édichka, in Italia uscito con il titolo Il poeta russo prefisse i grandi negri, a cui seguiranno altri libri, sempre autobiografici. Nel 1991, dopo anni passati prima a New York, poi a Parigi, torna in Russia dove fonda un giornale, Limonka, e un partito , il Partito Nazional Bolscevico. Nel 2001 viene arrestato con l’accusa di terrorismo e traffico di armi. Viene rinchiuso nel carcere di Lefortovo, dove scrive proprio questo libro, Il libro dell’acqua.
La struttura è semplice: si tratta di piccoli brani dedicati a tutte le acque che ha visto e in cui si è bagnato nel corso della sua vita: dai mari ai fiumi, dagli stagni alle fontane per finire alle saune. Non c’è un ordine cronologico, come lui stesso scrive: “Questi miei ricordi si possono leggere a partire da qualsiasi pagine e seguendo qualsiasi direzione. Nuotano nell’eternità, non hanno bisogno di dimensioni perché sono disciolti nell’eternità”. 
A leggerlo, Limonov appare proprio quel grande egocentrico di cui tutti parlano. E probabilmente lo è. La sua egosfera è di proporzioni cosmiche e mai in discussione. Ma forse, e dico forse, è proprio questo che lo rende un bravo scrittore. No, non uno scrittore eccelso, ma ha occhi da scrittore e non ci sia lascia abbindolare dalla sua narrazione di imprese incredibili, che tuttavia non ho alcun problema a considerare in larga parte vera. Si fluttua tra mari e fiumi e il viaggio è oltremodo piacevole. Sa come affascinare e, sebbene talvolta calchi un po’ troppo la mano, il quadro complessivo è riuscito. Ha un buon utilizzo delle immagini e uno sguardo privo di condiscendenza. Ci sono descrizioni di luoghi senza pietà, come la spiaggia di Ostia o la fontana di Trevi, che Limonov liquida così:  “Di per sé la fontana non era nulla di speciale. Una costruzione acquosa, vischiosa, ossidata. Sulle cartoline fa miglior figura”. È uno sguardo immediato, quasi bambinesco, del tutto capace di irritarti e irretirti allo stesso tempo. 
Alcuni brani sono coerenti, seguono la narrazione dell’acqua, altri si perdono nell’esosfera limonoviana, ma questo non li rende meno affascinante. Una presenza costante nelle sue narrazioni sono le donne. E la guerra. Come se queste fossero le uniche vie di accesso alla gloria. E se da una parte leggiamo un Limonov sempre più innamorato e distrutto dall’amore, dall’altra c’è l’uomo che combatte solo per il gusto di combattere, perché la guerra è una droga, come le donne. 
Personaggio controverso, lo ripeto, scrittore controverso e controcorrente, che si auto definisce “l’autore dei migliori libri della controcultura occidentale” in uno dei suoi (frequenti) attacchi di mania di grandezza. Ma dopotutto scrive: “Incoraggiate la mania di grandezza! Coltivate in ogni modo la vostra differenza dagli altri. Non c’è nessun senso ad assomigliare a questa marmaglia”
Una vita vissuta a 360 km orari. Forse davvero una vita di merda, come dice a Carrere nella sua ultima intervista. O forse esattamente la vita di merda che voleva. Resta il fatto che Eduard Limonov non riesce a passare per occhio. Una volta entrato, difficile venirne fuori. 
È esattamente questa la vita che ho voluto:”, scrive ”caledoiscopica, arrischiata, sfavillante”.

E io non ho alcun dubbio. 




mercoledì 10 gennaio 2018

Diario I, Anaïs Nin

Parigi, inverno 1931. Anaïs Nin conosce Henry Miller e la sua vita cambia radicalmente. Come lei stessa scrive, verrà gettata nella realtà. Un punto di svolta importante, un punto da dove iniziare a raccontare un percorso interiore che non finirà mai, la accompagnerà fino alla morte. 
Anaïs ha 28 anni, ha appena pubblicato un saggio su Lawrence, vive a Louvenciennes con sua madre e i fratelli, gioca a fare la piccola borghese. Ma sente che i vestiti anonimi, i tè pomeridiani e le piccole occupazioni domestiche le stanno strette: lei ha un fuoco, dentro, che vorrebbe far divampare, bruciando tutte quelle convenzioni di cui il suo mondo è intriso. La miccia è proprio Miller: un uomo geniale, ma brutale, terreno, caotico. Lo è nella vita che conduce, da perfetto bohémien, lo è nella sua scrittura, che è una colata di lava continua e che affascina Anaïs tanto da tenerlo sotto la sua ala protettrice per anni. Lo ascolta mentre parla di June, sua moglie, una donna passionale e misteriosa, bugiarda, forse tossicomane; lo ascolta mentre parla delle sue idee, le mostra i suoi appunti, la porta in giro per sordidi locali notturni, a bere, fumare, conoscere prostitute. Ecco, la vita che vuole la giovane Anaïs, quella di Henry, quella bohémien, quella del vero artista. E ogni sera, tornando a casa da una cena, da un giro per le strade fredde di Parigi o da una seduta con il suo analista, Anaïs scrive, si abbandona al suo migliore amico, il diario, la sua droga, il suo oppio, come lo descrive a tutti, lo riempie di ritratti, di pensieri, indugia sull’autoanalisi. Nei tre anni di questo primo diario, che va dal 1931 al 1934, scrive di ogni persona che conosce nei suoi anni parigini, descrive l’amore per June, la sua analisi con lo psicologo Allendy, trova spazio Artaud, Otto Rank. Ma sopratutto suo padre, il grande pianista, l’uomo che per prima la ha abbandonata, causandole tanta infelicità e insicurezza. 
Tutte queste persone, nel diario, diventano personaggi. Tutte le sue avventure, il dramma rappresentato. 
Bellissimo lo stile, così poetico e immaginifico, un’andatura che potrebbe essere la stessa del corpo esile e fragile della Nin: leggera, a volte sicura, spavalda, altre invece titubante. 
Anaïs donna, Anaïs figlia, Anaïs amante, Anaïs artista. Anaïs che ama sempre e comunque tutti e si prende cura di tutti, come una madre. Anaïs che vuole decidere della sua vita.

La vita ordinaria non mi interessa”, scrive. “Cerco solo i grandi momenti. Voglio essere una scrittrice che ricorda agli altri che questi momenti esistono”.






giovedì 28 dicembre 2017

Come diventare vivi, un vademecum per lettori selvaggi, G. Montesano

Come si fa a diventare vivi? Ma prima di tutto, cosa significa?
Ci alziamo la mattina, caffè, doccia, auto, lavoro, poi di nuovo a casa, cena veloce, un film sul divano per rilassarci, ce lo meritiamo, no?, dopo una giornata così faticosa, sempre di corsa, magari una sbirciatina a Facebook per salutare gli amici, guardare qualche foto… poi a letto. 
E la mattina si ricomincia. 
In questo lasso di tempo, meno di 24 ore, cosa ci fa sentire vivi?
Montesano, in questo librettino di poco più di 150 pagine e che sembra leggero come il volo di una farfalla, ci pone in realtà un grande interrogativo. 
E risponde: Anche nella prigione dei giorni in cui tutto sembra impossibile, anche nella mia miserabile paura di vivere. Io voglio rinascere…E comincerò dalla frase interrotta, e scenderò in quel mare in cui le ferite mal curate si schiuderanno come bocche innamorate , e faranno entrare in quella realtà in cui si vive senza sprecare la vita… 
Vivere davvero è non sprecare la vita. E per non sprecare la vita dobbiamo fare quello per cui siamo programmati fin dalla nascita: pensare. E per aiutarci a pensare dobbiamo leggere davvero, ascoltare davvero, guardare davvero. La formula di Montesano è semplicissima: troviamo (imperativo) il tempo per leggere, per vivere, per amare. 
Ma per far questo bisogna fare attenzione: attenzione a non rifiutare l’estraneo, perché è proprio questo che allarga la nostra mente; attenzione alle parole che leggiamo, solo così potremo leggere in profondità e avere rivelati il mondo e noi stessi; attenzione alle nuove tecnologie che ci inducono ad entrare nel mondo della chiacchiera, a ignorare le cose che contano davvero, distogliendoci dall’allenare le nostre menti; attenzione soprattutto a non diventare dei doxosophoi sapienti solo nel dire la propria opinione. E così, pagina dopo pagina, Montesano ci ricorda che leggere i maestri, Dostoevsky, Shakespeare, Pirandello, Dante, ascoltare i maestri, Beethoven, Wagner, guardare i maestri, Picasso, Botticelli, ci aiuta in questa operazione di risveglio. 
Ma bisogna volerlo. Dobbiamo voler vivere, voler essere uomini, volere la verità. E chi vuole la verità, come dice citando Platone, bisogna che sfreghi tra di loro le idee con le cose a cui si riferiscono, le sensazioni con le idee, le cose con le sensazioni, le visioni con le idee, le parole con le immagini, le parole con le idee e le immagini con le cose, domandando e rispondendo in discussioni benevole e senza odio, e il cui oggetto non sia la mia o la tua verità, finché, da questo sfregare parole con idee e idee con cose, non sprizzeranno, come da sassi fatti cozzare tra di loro, scintille di fuoco che accenderanno la conoscenza. 
Wow. Impossibile dirlo con parole migliori. 
Quello che ho trovato in questo libro è stata una sorta di incoraggiamento. Non tanto per leggere in modo selvaggio, quello lo faccio già da tempo, ma per non smettere di farlo.  Come se l’autore alla fine delle pagine mi avesse detto: ok, finora hai fatto un buon lavoro, ma non rinunciare, non entrare nella zona confort, non farti prendere dalla falsità marcisca della nube della chiacchiera, non ascoltare i guardiani del penitenziario emotivo.  
Vai. 
Leggi, ascolta, guarda. 

Vivi. 



domenica 24 dicembre 2017

La polvere magica, di Giulia Romoli

È il dicembre del 1987, la vigilia, esattamente, e ho nove anni.
Sono tutta presa dall'organizzazione della magica notte, quando arriverà il magico babbo con i miei magici doni. Raddrizzo le noci dorate appese all’albero(un lavoretto di scuola del quale sono orgogliosa: spero che Babbo Natale lo noti); corro in cucina a preparare latte e biscotti, piegando con cura la salvietta; spazzo sotto l'albero per assicurarmi doni privi di aghi di abete; faccio le prove davanti allo specchio per la versione angelica e un po' stupita di me che ho deciso di mostrare a Babbo Natale. Sì, perché stanotte, ho deciso, ce lo becco. È un progetto che porto avanti da un anno. Ho programmato tutto (pisolino pomeridiano, caffè) e sono certa di riuscire. Saltello da una stanza all'altra, facendo suonare con un dito le campanelle delle decorazioni appese ovunque.
La mamma e il papà sono in salotto, presi dalle faccende da adulti.
«Ora della nanna», dice la mamma posando nel cestino il lavoro a maglia: un nuovo maglione deforme. Ci prova sempre, la mamma, ma proprio non riesce. Tra poco, quando si accorgerà che le maniche sono troppo corte o il collo troppo largo, bofonchierà, e quando lo avrà finito come al solito  si metterà a leggere, una cosa che le viene decisamente meglio.
Mi infilo sotto le coperte tiepide di Scaldasonno, mi stringo al braccio di mamma, chiudo gli occhi e fingo un letargo immediato. Sul comodino Topolino indica con le braccia le nove e trenta: ho un bel po' di tempo da occupare. Prendo la torcia e il libro da sotto il letto e comincio a leggere sperando che la pentola magica di Taron mi tenga sveglia.
Sono le undici quando sento i primi rumori sospetti. È presto però. Babbo Natale arriva in anticipo? Sbagliato a rimettere l'orologio? Allungo l'orecchio alla porta. Ecco, il bicchiere. E questo è il rumore del piattino, ne sono certa. Se avessi avuto un camino sarebbe stato tutto più facile, avrei sentito il tonfo, ma al più qui c'è la cappa della cucina e Babbo Natale proprio non ci passa.
In punta di piedi, scalza, esco dalla stanza. Percorro il corridoio. Mi acquatto dietro ai muri. Tengo le orecchie dritte come un labrador. Faccio capolino in soggiorno: ci siamo.
Sulle prime non capisco niente: vedo la mamma che sorseggia il latte di Babbo Natale e basta. Ma che fai? vorrei dirle, quello è per lui, non per te! Ma poi ecco il papà, le mani cariche di pacchetti che si avvicina all'albero. Mette giù i pacchetti. Li sistema a ventaglio. Sorride alla mamma che nel frattempo ha finto il latte e che si sta trattenendo dal lavare il bicchiere. Si abbracciano. Si baciano. Buon Natale, buon Natale. Si avviano verso la loro stanza. Buio. 
Ce l'ho beccato davvero, Babbo Natale. 
Il ritorno al mio letto è una specie di travaglio. Piango lacrime calde di delusione, amare come il fiele. È quasi Natale e io detesto il mondo intero. 
La mattina, quando mi sveglio, il sole entra di prepotenza nella stanza, conquistandosi il tappeto a vista d'occhio. Non mi va di alzarmi. Durante la notte il mio sonno si è popolato di folletti, fate, gnomi in dissolvenza, come pastiglie effervescenti.
È la mamma, al solito, che viene a prendermi. È rossa in viso, sorridente. 
«Eli, tesoro! Sveglia pigrona! È Natale. Auguri, amore mio» e mi stringe e mi bacia tanto forte da privarmi del respiro per un attimo. Mugugno. Non sono ancora nell'età della finzione, ho i sentimenti che  mi si spalmano in faccia.
«Che c'è, tesoro? Non vuoi vedere cosa ti ha portato Babbo Natale?». È un po' delusa. Il rossore viene riassorbito nelle sue guance. «Vediamo... sei stata troppo cattiva e hai paura che non ti abbia portato niente?»
«Vi ho visto, stanotte. Tu e papà che sistemavate i regali sotto l’albero», annuncio glaciale.
Lei inspira e rimane così, le spalle contratte, la bocca chiusa, trattiene il fiato come se volesse inghiottirlo. Alla fine vincono i polmoni e si lascia uscire uno sbuffetto dal naso. Comincia con il tono più sommesso che conosco.
«Ormai sei grande e capirai che...»
«Mi avete preso in giro»
«Ma no, non è quello...»
«Nemmeno la fatina dei dentini?»
Balbetta un no.
«Gnomi? Folletti?»
No. No.
«Uomo nero?»
No. 
Sospiro di sollievo.
«Befana?»
«Be', quella esiste. È la sorella di tua nonna, la zia Alberta»
Ridiamo insieme.
«Senti Eli, ti ricordi quella storiella che ti raccontavo da piccola, quella della bambina che schioccava le dita, diceva la parola magica e le cadevano dal cielo dolci e caramelle?»
«Zim Zabardin!»
«Esatto. Quante volte hai provato a farlo? Fino a che non hai capito che era solo una storia, una bella storia»
Mi prende la mano.
«Babbo Natale è lo stesso: una bella storia»
Mordicchio delusa il lembo del lenzuolo che sa di mamma e lavanda. Lei mi abbraccia e mi posa le labbra sulla fronte.
«Sai, c'è un vantaggio in tutto questo», continua.
Penso alla delusione che mi sta mordendo ancora i piedi e aggrotto le sopracciglia.
«Da oggi puoi scoprire un altro piacere, migliore di quello di ricevere regali da un pancione vestito fuori moda»
Ho i miei dubbi, mamma, penso.
«Dai, andiamo intanto a scartare i regali. Poi te lo dico», conclude.
Nonostante tutto sono eccitata mentre strappo la carta: è un regalo gigantesco, una casa colonica per le mie bambole. Tanti piccoli mobili rifiniti in stile vittoriano. Un ascensore che funziona davvero. Uno specchietto a forma di fagiolo dove tuffarmi per refrigerarmi dalla calura. Un pratino all'inglese.
Verifico che il piacere di ricevere regali è ancora intatto. I regali hanno un'aria meno brillante di polvere magica, ma me ne dimentico mentre sistemo le mie bambole sopra il minuscolo divano imbottito e sul prato, a tirare la palla al cane. 
«Vestiti ora», mi dice la mamma «ti porto in un posto»
Le obbedisco silenziosa. Ho la sensazione che questa sia una specie di iniziazione. Salirò lo scalino del mio essere adulta, oggi, penso orgogliosa mentre mi imprigiono in uno dei maglioni della mamma: busto troppo stretto.
Lei è già sulla soglia, con in mano un pacchetto colorato e due grandi borse di carta. Scendiamo le scale del condominio in silenzio, lei davanti e io dietro. Sta sorridendo, lo so anche se non riesco a vederla in faccia, perché avverte quella curiosità elettrica che irradio. Al secondo piano si ferma davanti a una porta grigia.
«Sai chi abita qui?», mi chiede la mamma.
Annuisco. È la casa di Giovannino, anni sei, il bambino con le camicie a quadretti della Caritas. Il bambino delle collette per la merenda. 
Bussiamo e dopo pochi secondi la faccia tonda e un po' assonnata di Giovannino si incastra nello spiraglio della porta. Poi riconosce la mamma e spalanca tutto: occhi, bocca, porta.
Il soggiorno è decorato con lucette intermittenti e campanellini, palline spaiate, babbi Natale un po' sgualciti, una renna di peluche dal pelo scompigliato. Su un tappeto logoro ci sono quaderni e libri. Sulla tavola i bricioli di una colazione recente.
«A Giovannino piace tanto leggere, sai?», mi dice porgendogli il pacchetto colorato. Intanto dalla cucina è comparsa anche la mamma di Giovannino.
Dalle buste mamma estrae dei vecchi giornalini che avevo dimenticato, vestiti per Giovannino, alcune scatole di pasta, biscotti, tonno, pane in cassetta.
Giovannino strappa la carta del suo regalo, la scava come un cucciolo che vuole continuare a giocare. Emette gridolini di gioia quando vede i libri, abbraccia la mamma, si mette a sfogliarli avido, ringrazia ancora la mamma, poi me.
Ci fermiamo quasi un'ora a casa loro, sommerse dalla loro felicità. E dentro di me sento quella sensazione tutta nuova, inesplorata. Il piacere di cui parlava la mamma. Un piacere che si allarga dentro di me, che mi riempie completamente e mi fa sentire grande e piccola allo stesso tempo.
Mentre usciamo mi sembra che tutto il mondo brilli di polvere magica.


È il Dicembre del 2000, la vigilia, esattamente, e ho ventidue anni. 
Le mie mani riempiono piatti di plastica. Arriva Pino, per primo.
«Lasagne?», chiede. È un ometto basso. Risiede all'angolo tra il negozio di calze e la caffetteria insieme al suo cane, Argo. Letto cartonato. 
Gli passo un piatto fumante. 
Dietro di lui aspetta Rosa, occhi grandi e liquidi, dilaganti. È la donna degli stracci. Ringrazia per le lasagne e subito si mette a confabulare di qualcosa con il suo vicino al tavolo. 
La sala della mensa dei poveri è piena di gente in fila per la sua porzione di lasagne e pollo arrosto. Un vera cena da vigilia di Natale. Li guardo e sono felice. Mi godo quella sensazione che ho ormai interiorizzato, che non è più nuova, ma che non smette mai di sorprendermi. 
E tutta la sala brilla di polvere magica.









lunedì 11 dicembre 2017

Nelle terre di nessuno, C. Offutt, una quasi recensione

Quest’anno, al Pisa Book Festival, sono andata decisa su quale libro comprare: Lincoln nel Bardo, il nuovo romanzo di Saunders. Dopotutto, la Minimum fax è presenza fissa, in quanto editore indipendente. Mi infilo quindi tra la folla decisamente numerosa delle sei della domenica pomeriggio e, mappa alla mano, trovo lo stand. Do un’occhiata veloce sul banco e non lo vedo: strano, penso, s’è appena vinto il Man Booker Prize questo libro, e non è in pole position? Allora faccio la scema e chiedo: ma dove li tenete i libri di Saunders? La ragazza si spacca in quattro per mostrarmi la nuova bellissima copertina di Dieci dicembre. Poi mi mostra Nel paese della persuasione. Sì, le faccio, questi li ho già, cercavo il romanzo, quello nuovo. 
Ah, mi fa lei, ma quello non è nostro! È Feltrinelli! 
Come Feltrinelli? Avete pubblicato tutto Saunders finora e il romanzo è Feltrinelli? 
La ragazza mi guarda con un mezzo sorriso. Fanno sempre così, mi dice. Li scopriamo noi e poi quando sono già famosi se li prendono e li fanno vincere lo Strega… e mi mostra la nuova copertina di Sofia si veste sempre di nero, di Cognetti. Sto quasi per andar via, delusa e rammaricata per la povera casa editrice scopritrice di talenti a cui fregano i romanzi all’asta, quando sollevo una copertina rossa e un nome nuovo. Diciamocelo: io, i titoli della Minimum fax li conosco tutti, anche prima che escano in libreria. Ma quello no. Quello mi è nuovo. Chi è? , chiedo alla ragazza. Lui è bravo, mi fa mentre cerca di ascoltare la signora accanto a me che ha due libri in mano. Ma questo com’è?, bela la tizia. Ha in mano A pesca nelle pozze più profonde. Rispondo io. Questo è per gli addetti ai lavori, signora. Vuole un Cognetti? Si prenda Sofia e non ne sarà delusa. La signora mi dà retta, paga Sofia e se ne va. Io resto con Chris Offutt in mano. Nelle terre di nessuno. Quarta di copertina: 

Insomma, quel vento portò l’odore di Dorothy in tutto il bosco, e l’odore attirò un orso. D’inverno dormono, e quando si svegliano sono così affamati che si mangerebbero un’incudine. L’orso la seguì per un quarto di miglio e Dorothy non se accorse mai. Forse cantava, non lo so. Per una donna cantare per la propria bambina è naturale come per un orso mangiare carne. Non si può dare la colpa alle colline per quello che ci succede in cima. Qualcuno incolpa Dio, ma non credo che lui si preoccupi troppo di quello che succede lassù.

Tra poco esploderà anche lui, mi fa la ragazza. Come Cognetti e Saunders. Abbiamo già intenzione di pubblicare altri suoi libri. insomma, inutile dirlo, mi convince al volo, sgancio il contante e me lo infilo nella borsa. 
Non amo leggere le recensioni prima di iniziare un libro, quindi, una volta a casa, mi tuffo nelle pagine. Il primo salto, però, è come buttarsi in un laghetto gelato. Nonostante io provi a pestare i piedi, il ghiaccio non si rompe e resto lì, infreddolita e delusa. Ma sono racconti e non mi do per vinta. La perseveranza mi premia. Non tutti i racconti sono ghiaccio che non vuole rompersi. Andando avanti nella lettura inizio a comprendere il mio disagio. In realtà la scrittura è estremamente precisa, lineare, chiarissima. È uno stile che descrive senza trasmettere emozioni. Storia dopo storia, personaggio dopo personaggio, ci si addentra in un Kentucky fatto di alcol, degrado, occasioni perdute, miseria, superstizione. Un mondo che per me era quasi sconosciuto. Molti i racconti riusciti al cento per cento, tra cui Luna calante, Blue Lick e Zia Lith, l’ultima levatrice, uno dei miei preferiti, dove i personaggi finiscono in una spirale ineluttabile di semi follia, in mezzo a credenze antiche come il mondo e rimpianti. Insomma, chiudo l’ultima pagina quasi con sollievo. Ed eccolo, il mio disagio, svelato nella sua elementare forma umana: tutta questa brutalità, questa mancanza di redenzione, questi cattivi odori, cattive azioni, il menefreghismoo, l’alcolismo, la vecchiaia, insomma, questi racconti concentrano tutto quello che un uomo preferisce fingere di non vedere. E qui allora sta la sua forza: costringerti a farlo, farti scendere dalle nuvole dorate in cui vorresti essere leggendo un libro solo per svagarti. Ti presenta la realtà nella sua versione più ruvida. E attecchisce. Eccome se attecchisce. Ti resta addosso una sensazione che bella non lo è affatto, ma sai che è vera. E come al solito se c’è una cosa che apprezzo è proprio questo in un libro, la sua onestà. 
Quindi a Offutt un bel voto, certo. Anche alla mia casa editrice preferita, ovvio. Che come al solito non sbaglia un colpo. 







mercoledì 15 novembre 2017

Foglie, ombrelli e zainetti rossi: Paolo Cognetti al Pisa Book Festival

L'ultima volta che sono andata a sentire la presentazione di un libro a cui tenevo moltissimo (era Foer, a Sarzana, Festival della mente, presentava Eccomi), la batteria dell'auto mi ha lasciato a piedi e ho rischiato di mandare tutto all'aria. L'ho visto come un segno di qualcosa, anche se non sono riuscita a dargli un significato. Ecco perché quando parto, oggi, per il Pisa book festival, dove Paolo Cognetti presenta Le otto montagne, mi stupisco che non ci siano intoppi: riesco a uscire mezz'ora prima dal lavoro, come previsto, nessuna fila chilometrica in Fi-Pi-Li, già un miracolo di per sé. È vero, piove, ma insomma, non è un temporale.
Quindi, se questo fosse un racconto, arriverei al Palazzo dei congressi in perfetto orario, farei pochissima fila per il biglietto, sistemerei l'ombrello nel portaombrelli con la certezza che sarà lì al mio ritorno, entrerei e mi fermerei al primo punto ristoro per un caffè, che anche se è l'ottavo della giornata non importa. Dopotutto è un racconto, no?
Del tutto casualmente mi ritroverei accanto a un ragazzo con la camicia verde a quadri e lo zainetto rosso. Voltandomi, deliziata ma non davvero stupita, direi, con una voce assolutamente tranquilla e calma: Paolo, posso offrirti un caffè in cambio di un autografo? Da lì partirei a vomitargli addosso tutto quello che avrei sempre avuto voglia di dirgli: che di Sofia mi sono innamorata fin dalla prima pagina, che lui, e lui solo, ha cambiato il mio modo di vedere la narrativa italiana, che con i suoi racconti ha allargato i miei confini di scrittura, che Le otto montagne è un romanzo talmente bello e rilassante che andrebbe consigliato come terapia antistress.
Ma questo non è un racconto. E alla realtà non si sfugge.
Quindi arrivo al Palazzo dei congressi perfettamente in orario. Compro il biglietto dopo aver fatto poca fila, entro e poso il mio ombrello all'ingresso, sicura che non lo ritroverò quando andrò via. Controllo la sala dove si terrà la presentazione e mi avvio. Niente caffè. Sarebbe l’ottavo della giornata, meglio non sfidare la sorte.
C'è un sacco di gente nella sala Pacinotti e fa un caldo allucinante. Ma grazie ad amiche molto più organizzate di me trovo un ottimo posto e quando lui arriva, camicia verde a quadri e zainetto rosso, ho una visuale quasi perfetta.
È abbronzato, mi fa la mia amica.
Vero. È abbronzato e ha una barba che assomiglia al mio cervello dopo dieci ore di lavoro. Ma appare rilassato, perfettamente a suo agio accanto a Lucia della Porta, che è lì per intervistarlo.
Attacca chiedendo il significato delle Otto montagne. Otto. Un numero che per noi occidentali, legati al cristianesimo, ha poco significato, ma che per il buddismo invece è legato al concetto di karma: le cattive azioni in questa vita devono essere compensate nella vita successiva. Per arrivare al Nirvana il buddista deve porre fine al ciclo delle reincarnazioni seguendo le otto vie del Dharma. Paolo vuole mettere l'accento sulla spiritualità della montagna.
Ma per lui ha un significato anche pedagogico. Ed è esattamente quello che traspare dalle pagine del suo libro. La prima parte è dedicata alla montagna che passa attraverso la figura di suo padre, ed è una montagna che insegna disciplina e tenacia. Mentre la seconda parte è dedicata alla montagna spirituale, un luogo di meditazione. Chi arriva ai ghiacciai si trova immerso nella Natura, nella Wilderness. Senza mediazioni. E scopre se stesso.
Cardine del intervista mi è sembrato la nota più o meno autobiografica, sulla quale Della porta ha insistito molto. Ma chiunque sa che scrivere prescindendo da se stessi è impossibile. Ed ecco che il padre di Pietro, il protagonista, è molto simile al padre di Paolo. Ma è anche il riassunto di tanti altri padri letti nei libri, dal suo primo amore, Carver, a Hemingway. Stessa sorte per la figura femminile più forte di tutto il romanzo, la madre, una donna di altri tempi, egregiamente dipinta, cosa che a Cognetti riesce dopotutto benissimo: le donne nei suoi racconti sono sempre molto presenti in tutta la loro femminilità.
Della Porta ha infine rivolto una domanda interessante.
Sull’amicizia. L'amicizia è un sentimento che si palesa prepotente nel libro, che scavalca confini e si trasforma. Il personaggio di Bruno, amico d'infanzia legato al piccolo paese di montagna di Grana, si contrappone a Pietro, quasi rendendoli la diversa faccia della stessa medaglia, con un legame che durerà tutta la vita. Paolo lo descrive come un sentimento sovversivo di questi tempi. Con ben poca ironia, condanna la famiglia attuale, all'interno della quale un adolescente si sente fin troppo protetto. E quindi i rapporti sociali al di fuori di essa tendono a necrotizzarsi, spazzando via un mondo che era, invece, fatto di rapporti scelti in prima persona.
L'intervista chiude il cerchio e torna al mandala delle otto montagne, ben spiegato nel libro: all'interno del mandala c'è un monte altissimo, il Sumeru, mentre sulla circonferenza ci sono otto montagne, separate da otto mari. La domanda rimane aperta: chi avrà imparato di più? Chi è arrivato in cima al monte Sumeru o chi ha fatto il giro delle otto montagne? Chi si sposta nello spazio, un po' come Boccadoro, ci ricorda Cognetti, o chi si sposta nel tempo, come Narciso?  
A questo punto mi torna alla mente un passo proprio di Hesse:  Noi due, caro amico, siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra. La nostra meta non è di trasformarci l'uno nell'altro, ma di conoscerci l'un l'altro e d'imparare a vedere e a rispettare nell'altro ciò ch'egli è: il nostro opposto e il nostro complemento.
E quindi la montagna unisce questi due opposti, Pietro e Bruno. Così come unisce Paolo e il resto del mondo. E lo fa grazie a un libro.
L'intervista volge al termine, forse troppo presto. E nella sala Pacinotti cade leggera una foglia. Reale. Chissà da dove è arrivata. Qualcuno la vede, tra i presenti, qualche commento, sembra magia. La natura che saluta le Otto montagne. Me ne vado dal Book festival con questo pizzico di magia nel cuore.
E forse è questa magia che fa sì che il mio ombrello sia ancora all'ingresso, non toccato. Ha smesso anche di piovere. Mentre esco vedo in lontana uno zainetto rosso. Forse correndo un po'..., penso. Ma di magia per oggi ne ho avuta già abbastanza.
Mi volto dalla parte opposta e cammino verso la macchina.