È il dicembre del 1987, la vigilia, esattamente, e ho nove anni.
Sono tutta presa dall'organizzazione della magica notte, quando arriverà il magico babbo con i miei magici doni. Raddrizzo le noci dorate appese all’albero(un lavoretto di scuola del quale sono orgogliosa: spero che Babbo Natale lo noti); corro in cucina a preparare latte e biscotti, piegando con cura la salvietta; spazzo sotto l'albero per assicurarmi doni privi di aghi di abete; faccio le prove davanti allo specchio per la versione angelica e un po' stupita di me che ho deciso di mostrare a Babbo Natale. Sì, perché stanotte, ho deciso, ce lo becco. È un progetto che porto avanti da un anno. Ho programmato tutto (pisolino pomeridiano, caffè) e sono certa di riuscire. Saltello da una stanza all'altra, facendo suonare con un dito le campanelle delle decorazioni appese ovunque.
La mamma e il papà sono in salotto, presi dalle faccende da adulti.
«Ora della nanna», dice la mamma posando nel cestino il lavoro a maglia: un nuovo maglione deforme. Ci prova sempre, la mamma, ma proprio non riesce. Tra poco, quando si accorgerà che le maniche sono troppo corte o il collo troppo largo, bofonchierà, e quando lo avrà finito come al solito si metterà a leggere, una cosa che le viene decisamente meglio.
Mi infilo sotto le coperte tiepide di Scaldasonno, mi stringo al braccio di mamma, chiudo gli occhi e fingo un letargo immediato. Sul comodino Topolino indica con le braccia le nove e trenta: ho un bel po' di tempo da occupare. Prendo la torcia e il libro da sotto il letto e comincio a leggere sperando che la pentola magica di Taron mi tenga sveglia.
Sono le undici quando sento i primi rumori sospetti. È presto però. Babbo Natale arriva in anticipo? Sbagliato a rimettere l'orologio? Allungo l'orecchio alla porta. Ecco, il bicchiere. E questo è il rumore del piattino, ne sono certa. Se avessi avuto un camino sarebbe stato tutto più facile, avrei sentito il tonfo, ma al più qui c'è la cappa della cucina e Babbo Natale proprio non ci passa.
In punta di piedi, scalza, esco dalla stanza. Percorro il corridoio. Mi acquatto dietro ai muri. Tengo le orecchie dritte come un labrador. Faccio capolino in soggiorno: ci siamo.
Sulle prime non capisco niente: vedo la mamma che sorseggia il latte di Babbo Natale e basta. Ma che fai? vorrei dirle, quello è per lui, non per te! Ma poi ecco il papà, le mani cariche di pacchetti che si avvicina all'albero. Mette giù i pacchetti. Li sistema a ventaglio. Sorride alla mamma che nel frattempo ha finto il latte e che si sta trattenendo dal lavare il bicchiere. Si abbracciano. Si baciano. Buon Natale, buon Natale. Si avviano verso la loro stanza. Buio.
Ce l'ho beccato davvero, Babbo Natale.
Il ritorno al mio letto è una specie di travaglio. Piango lacrime calde di delusione, amare come il fiele. È quasi Natale e io detesto il mondo intero.
La mattina, quando mi sveglio, il sole entra di prepotenza nella stanza, conquistandosi il tappeto a vista d'occhio. Non mi va di alzarmi. Durante la notte il mio sonno si è popolato di folletti, fate, gnomi in dissolvenza, come pastiglie effervescenti.
È la mamma, al solito, che viene a prendermi. È rossa in viso, sorridente.
«Eli, tesoro! Sveglia pigrona! È Natale. Auguri, amore mio» e mi stringe e mi bacia tanto forte da privarmi del respiro per un attimo. Mugugno. Non sono ancora nell'età della finzione, ho i sentimenti che mi si spalmano in faccia.
«Che c'è, tesoro? Non vuoi vedere cosa ti ha portato Babbo Natale?». È un po' delusa. Il rossore viene riassorbito nelle sue guance. «Vediamo... sei stata troppo cattiva e hai paura che non ti abbia portato niente?»
«Vi ho visto, stanotte. Tu e papà che sistemavate i regali sotto l’albero», annuncio glaciale.
Lei inspira e rimane così, le spalle contratte, la bocca chiusa, trattiene il fiato come se volesse inghiottirlo. Alla fine vincono i polmoni e si lascia uscire uno sbuffetto dal naso. Comincia con il tono più sommesso che conosco.
«Ormai sei grande e capirai che...»
«Mi avete preso in giro»
«Ma no, non è quello...»
«Nemmeno la fatina dei dentini?»
Balbetta un no.
«Gnomi? Folletti?»
No. No.
«Uomo nero?»
No.
Sospiro di sollievo.
«Befana?»
«Be', quella esiste. È la sorella di tua nonna, la zia Alberta»
Ridiamo insieme.
«Senti Eli, ti ricordi quella storiella che ti raccontavo da piccola, quella della bambina che schioccava le dita, diceva la parola magica e le cadevano dal cielo dolci e caramelle?»
«Zim Zabardin!»
«Esatto. Quante volte hai provato a farlo? Fino a che non hai capito che era solo una storia, una bella storia»
Mi prende la mano.
«Babbo Natale è lo stesso: una bella storia»
Mordicchio delusa il lembo del lenzuolo che sa di mamma e lavanda. Lei mi abbraccia e mi posa le labbra sulla fronte.
«Sai, c'è un vantaggio in tutto questo», continua.
Penso alla delusione che mi sta mordendo ancora i piedi e aggrotto le sopracciglia.
«Da oggi puoi scoprire un altro piacere, migliore di quello di ricevere regali da un pancione vestito fuori moda»
Ho i miei dubbi, mamma, penso.
«Dai, andiamo intanto a scartare i regali. Poi te lo dico», conclude.
Nonostante tutto sono eccitata mentre strappo la carta: è un regalo gigantesco, una casa colonica per le mie bambole. Tanti piccoli mobili rifiniti in stile vittoriano. Un ascensore che funziona davvero. Uno specchietto a forma di fagiolo dove tuffarmi per refrigerarmi dalla calura. Un pratino all'inglese.
Verifico che il piacere di ricevere regali è ancora intatto. I regali hanno un'aria meno brillante di polvere magica, ma me ne dimentico mentre sistemo le mie bambole sopra il minuscolo divano imbottito e sul prato, a tirare la palla al cane.
«Vestiti ora», mi dice la mamma «ti porto in un posto»
Le obbedisco silenziosa. Ho la sensazione che questa sia una specie di iniziazione. Salirò lo scalino del mio essere adulta, oggi, penso orgogliosa mentre mi imprigiono in uno dei maglioni della mamma: busto troppo stretto.
Lei è già sulla soglia, con in mano un pacchetto colorato e due grandi borse di carta. Scendiamo le scale del condominio in silenzio, lei davanti e io dietro. Sta sorridendo, lo so anche se non riesco a vederla in faccia, perché avverte quella curiosità elettrica che irradio. Al secondo piano si ferma davanti a una porta grigia.
«Sai chi abita qui?», mi chiede la mamma.
Annuisco. È la casa di Giovannino, anni sei, il bambino con le camicie a quadretti della Caritas. Il bambino delle collette per la merenda.
Bussiamo e dopo pochi secondi la faccia tonda e un po' assonnata di Giovannino si incastra nello spiraglio della porta. Poi riconosce la mamma e spalanca tutto: occhi, bocca, porta.
Il soggiorno è decorato con lucette intermittenti e campanellini, palline spaiate, babbi Natale un po' sgualciti, una renna di peluche dal pelo scompigliato. Su un tappeto logoro ci sono quaderni e libri. Sulla tavola i bricioli di una colazione recente.
«A Giovannino piace tanto leggere, sai?», mi dice porgendogli il pacchetto colorato. Intanto dalla cucina è comparsa anche la mamma di Giovannino.
Dalle buste mamma estrae dei vecchi giornalini che avevo dimenticato, vestiti per Giovannino, alcune scatole di pasta, biscotti, tonno, pane in cassetta.
Giovannino strappa la carta del suo regalo, la scava come un cucciolo che vuole continuare a giocare. Emette gridolini di gioia quando vede i libri, abbraccia la mamma, si mette a sfogliarli avido, ringrazia ancora la mamma, poi me.
Ci fermiamo quasi un'ora a casa loro, sommerse dalla loro felicità. E dentro di me sento quella sensazione tutta nuova, inesplorata. Il piacere di cui parlava la mamma. Un piacere che si allarga dentro di me, che mi riempie completamente e mi fa sentire grande e piccola allo stesso tempo.
Mentre usciamo mi sembra che tutto il mondo brilli di polvere magica.
È il Dicembre del 2000, la vigilia, esattamente, e ho ventidue anni.
Le mie mani riempiono piatti di plastica. Arriva Pino, per primo.
«Lasagne?», chiede. È un ometto basso. Risiede all'angolo tra il negozio di calze e la caffetteria insieme al suo cane, Argo. Letto cartonato.
Gli passo un piatto fumante.
Dietro di lui aspetta Rosa, occhi grandi e liquidi, dilaganti. È la donna degli stracci. Ringrazia per le lasagne e subito si mette a confabulare di qualcosa con il suo vicino al tavolo.
La sala della mensa dei poveri è piena di gente in fila per la sua porzione di lasagne e pollo arrosto. Un vera cena da vigilia di Natale. Li guardo e sono felice. Mi godo quella sensazione che ho ormai interiorizzato, che non è più nuova, ma che non smette mai di sorprendermi.
E tutta la sala brilla di polvere magica.