Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

domenica 28 dicembre 2014

Il libro dell'inquietudine di Bernardo Soares, Fernando Pessoa

            Il Libro dell'inquietudine di Bernardo Soares fu pubblicato per la prima volta in Portogallo nel 1982, dopo cinquant'anni dalla morte del suo autore, Fernando Pessoa.
È da considerarsi più che come un romanzo, come un libro-progetto, che occupò almeno vent'anni della vita dello scrittore portoghese. Si tratta infatti di 250 frammenti, circa, rinvenuti nella casa di Pessoa, nei quali il suo eteronimo ( o semi-eteronimo) Soares riflette,  e vaneggia a volte, sui più svariati temi. Dalla vita alla morte, dal sogno alla realtà.
La prima edizione di questo libro fu curata da Jacinto do Prado Coelho, ma sono molte le varianti: si tratta infatti di un assembramento dei vari frammenti, molti dei quali rinvenuti scritti a mano sul retro di buste commerciali o su fogli di taccuino, impossibili da ricostruire cronologicamente.
Un progetto che sembrerebbe quindi non terminato. Eppure è lo stesso Soares-Pessoa che ne ipotizza, in uno dei suoi ultimi frammenti, proprio la pubblicazione, così da rendere il libro dell'inquietudine un vero e proprio esperimento di sovversione del romanzo, come altri scrittori avevano tentato e tenteranno poi di fare, come lo stesso Pasolini in Petrolio.
Ma Pessoa non colpisce solo la struttura. Anche lo stile e le stesse parole vengono aggredite dalla sua smania di "parolare". Si incontra così neologismi come sdormo ( o intra-sono) e di queste cose riesce a farne una vera e propria dichiarazione di intenti . Le parole sono per me corpi toccabili, sirene visibili, sensualità incorporate.
Una grande parte la occupa il sogno, in tutte le sue declinazioni. La sua, dichiara Soares, è una vita passata a sognare. E alla fine quest'uomo di concetto, questo semplice contabile che passa gran parte della sua vita in Rua dos Douradoeres (non ne uscirò mai, ammette) è un uomo che guarda la realtà dalla finestra, la conosce solo attraverso il sogno e la filtra grazie all'immaginazione. Così un tramonto reale è uguale a un tramonto dentro di sé. Perché la realtà vera di un oggetto è soltanto una parte di esso.   E scrivere alla fine è vedere i propri sogni nitidamente o saper vedere in sogno la vita, fotografandola con la macchina della fantasticheria.  Ed è quindi meglio scrivere che osar vivere. Molto meglio sedersi sulla soglia e immergersi nel paesaggio, riuscendo acomporre brani sublimi come questo:
Allorché le ultime calure estive andavano perdendo la ferocia sotto il sole velato, l'autunno cominciava prima della sua entrata, con una lieve tristezza prolissamente indefinita, come se il cielo non avesse voglia di sorridere.  
Ma la vita passata alla finestra produce grandi stasi, un tedio dell'anima e la felicità risulta impossibile perché non c'è felicità se non con consapevolezza. Ma la consapevolezza della felicità è infelice, perché sapersi felice è sapere  che si sta attraversando la felicità e che si dovrà subito lasciarla.
Sembra così descritta una strada senza via d'uscita. L'inquietudine ( il desassossego) di Pessoa come momento del quotidiano che ognuno, prima o poi, assaggia in misura minore o meno. Ma lo scrittore non manca di ricordarci che dato che la vita è essenzialmente uno stato mentale, e che le nostre azioni o i nostri sogni sono validi per noi nella misura in cui li consideriamo validi, la valorizzazione dipende da noi. Il sognatore è un emissore di banconote, e le banconote che egli emette valgono nella città dl suo spirito alla stessa stregua delle banconote della realtà.

Un libro unico, che insegna a riflettere sul valore della vita. Uno stile inimitabile, che non delude mai. Un autore geniale, che è impossibile dimenticare.





domenica 14 dicembre 2014

#7

Vedere le cose come sono veramente...per me questo è sempre e ovunque, nella scrittura, nella vita, una questione morale 
(Zadie Smith)

Foto: Alessia Zanzi

domenica 7 dicembre 2014

Aspetta primavera, Bandini, John Fante

Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustato. Si chiamava Svevo Bandini e abitava in quella strada, tre isolati più avanti. Aveva freddo e le scarpe sfondate. Quella mattina le aveva rattoppate con dei pezzi di cartone di una scatola di pasta. Pasta che non era stata pagata. Ci aveva pensato proprio mentre infilava il cartone nelle scarpe.
Foto: Francesco Romoli