Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

giovedì 28 dicembre 2017

Come diventare vivi, un vademecum per lettori selvaggi, G. Montesano

Come si fa a diventare vivi? Ma prima di tutto, cosa significa?
Ci alziamo la mattina, caffè, doccia, auto, lavoro, poi di nuovo a casa, cena veloce, un film sul divano per rilassarci, ce lo meritiamo, no?, dopo una giornata così faticosa, sempre di corsa, magari una sbirciatina a Facebook per salutare gli amici, guardare qualche foto… poi a letto. 
E la mattina si ricomincia. 
In questo lasso di tempo, meno di 24 ore, cosa ci fa sentire vivi?
Montesano, in questo librettino di poco più di 150 pagine e che sembra leggero come il volo di una farfalla, ci pone in realtà un grande interrogativo. 
E risponde: Anche nella prigione dei giorni in cui tutto sembra impossibile, anche nella mia miserabile paura di vivere. Io voglio rinascere…E comincerò dalla frase interrotta, e scenderò in quel mare in cui le ferite mal curate si schiuderanno come bocche innamorate , e faranno entrare in quella realtà in cui si vive senza sprecare la vita… 
Vivere davvero è non sprecare la vita. E per non sprecare la vita dobbiamo fare quello per cui siamo programmati fin dalla nascita: pensare. E per aiutarci a pensare dobbiamo leggere davvero, ascoltare davvero, guardare davvero. La formula di Montesano è semplicissima: troviamo (imperativo) il tempo per leggere, per vivere, per amare. 
Ma per far questo bisogna fare attenzione: attenzione a non rifiutare l’estraneo, perché è proprio questo che allarga la nostra mente; attenzione alle parole che leggiamo, solo così potremo leggere in profondità e avere rivelati il mondo e noi stessi; attenzione alle nuove tecnologie che ci inducono ad entrare nel mondo della chiacchiera, a ignorare le cose che contano davvero, distogliendoci dall’allenare le nostre menti; attenzione soprattutto a non diventare dei doxosophoi sapienti solo nel dire la propria opinione. E così, pagina dopo pagina, Montesano ci ricorda che leggere i maestri, Dostoevsky, Shakespeare, Pirandello, Dante, ascoltare i maestri, Beethoven, Wagner, guardare i maestri, Picasso, Botticelli, ci aiuta in questa operazione di risveglio. 
Ma bisogna volerlo. Dobbiamo voler vivere, voler essere uomini, volere la verità. E chi vuole la verità, come dice citando Platone, bisogna che sfreghi tra di loro le idee con le cose a cui si riferiscono, le sensazioni con le idee, le cose con le sensazioni, le visioni con le idee, le parole con le immagini, le parole con le idee e le immagini con le cose, domandando e rispondendo in discussioni benevole e senza odio, e il cui oggetto non sia la mia o la tua verità, finché, da questo sfregare parole con idee e idee con cose, non sprizzeranno, come da sassi fatti cozzare tra di loro, scintille di fuoco che accenderanno la conoscenza. 
Wow. Impossibile dirlo con parole migliori. 
Quello che ho trovato in questo libro è stata una sorta di incoraggiamento. Non tanto per leggere in modo selvaggio, quello lo faccio già da tempo, ma per non smettere di farlo.  Come se l’autore alla fine delle pagine mi avesse detto: ok, finora hai fatto un buon lavoro, ma non rinunciare, non entrare nella zona confort, non farti prendere dalla falsità marcisca della nube della chiacchiera, non ascoltare i guardiani del penitenziario emotivo.  
Vai. 
Leggi, ascolta, guarda. 

Vivi. 



domenica 24 dicembre 2017

La polvere magica, di Giulia Romoli

È il dicembre del 1987, la vigilia, esattamente, e ho nove anni.
Sono tutta presa dall'organizzazione della magica notte, quando arriverà il magico babbo con i miei magici doni. Raddrizzo le noci dorate appese all’albero(un lavoretto di scuola del quale sono orgogliosa: spero che Babbo Natale lo noti); corro in cucina a preparare latte e biscotti, piegando con cura la salvietta; spazzo sotto l'albero per assicurarmi doni privi di aghi di abete; faccio le prove davanti allo specchio per la versione angelica e un po' stupita di me che ho deciso di mostrare a Babbo Natale. Sì, perché stanotte, ho deciso, ce lo becco. È un progetto che porto avanti da un anno. Ho programmato tutto (pisolino pomeridiano, caffè) e sono certa di riuscire. Saltello da una stanza all'altra, facendo suonare con un dito le campanelle delle decorazioni appese ovunque.
La mamma e il papà sono in salotto, presi dalle faccende da adulti.
«Ora della nanna», dice la mamma posando nel cestino il lavoro a maglia: un nuovo maglione deforme. Ci prova sempre, la mamma, ma proprio non riesce. Tra poco, quando si accorgerà che le maniche sono troppo corte o il collo troppo largo, bofonchierà, e quando lo avrà finito come al solito  si metterà a leggere, una cosa che le viene decisamente meglio.
Mi infilo sotto le coperte tiepide di Scaldasonno, mi stringo al braccio di mamma, chiudo gli occhi e fingo un letargo immediato. Sul comodino Topolino indica con le braccia le nove e trenta: ho un bel po' di tempo da occupare. Prendo la torcia e il libro da sotto il letto e comincio a leggere sperando che la pentola magica di Taron mi tenga sveglia.
Sono le undici quando sento i primi rumori sospetti. È presto però. Babbo Natale arriva in anticipo? Sbagliato a rimettere l'orologio? Allungo l'orecchio alla porta. Ecco, il bicchiere. E questo è il rumore del piattino, ne sono certa. Se avessi avuto un camino sarebbe stato tutto più facile, avrei sentito il tonfo, ma al più qui c'è la cappa della cucina e Babbo Natale proprio non ci passa.
In punta di piedi, scalza, esco dalla stanza. Percorro il corridoio. Mi acquatto dietro ai muri. Tengo le orecchie dritte come un labrador. Faccio capolino in soggiorno: ci siamo.
Sulle prime non capisco niente: vedo la mamma che sorseggia il latte di Babbo Natale e basta. Ma che fai? vorrei dirle, quello è per lui, non per te! Ma poi ecco il papà, le mani cariche di pacchetti che si avvicina all'albero. Mette giù i pacchetti. Li sistema a ventaglio. Sorride alla mamma che nel frattempo ha finto il latte e che si sta trattenendo dal lavare il bicchiere. Si abbracciano. Si baciano. Buon Natale, buon Natale. Si avviano verso la loro stanza. Buio. 
Ce l'ho beccato davvero, Babbo Natale. 
Il ritorno al mio letto è una specie di travaglio. Piango lacrime calde di delusione, amare come il fiele. È quasi Natale e io detesto il mondo intero. 
La mattina, quando mi sveglio, il sole entra di prepotenza nella stanza, conquistandosi il tappeto a vista d'occhio. Non mi va di alzarmi. Durante la notte il mio sonno si è popolato di folletti, fate, gnomi in dissolvenza, come pastiglie effervescenti.
È la mamma, al solito, che viene a prendermi. È rossa in viso, sorridente. 
«Eli, tesoro! Sveglia pigrona! È Natale. Auguri, amore mio» e mi stringe e mi bacia tanto forte da privarmi del respiro per un attimo. Mugugno. Non sono ancora nell'età della finzione, ho i sentimenti che  mi si spalmano in faccia.
«Che c'è, tesoro? Non vuoi vedere cosa ti ha portato Babbo Natale?». È un po' delusa. Il rossore viene riassorbito nelle sue guance. «Vediamo... sei stata troppo cattiva e hai paura che non ti abbia portato niente?»
«Vi ho visto, stanotte. Tu e papà che sistemavate i regali sotto l’albero», annuncio glaciale.
Lei inspira e rimane così, le spalle contratte, la bocca chiusa, trattiene il fiato come se volesse inghiottirlo. Alla fine vincono i polmoni e si lascia uscire uno sbuffetto dal naso. Comincia con il tono più sommesso che conosco.
«Ormai sei grande e capirai che...»
«Mi avete preso in giro»
«Ma no, non è quello...»
«Nemmeno la fatina dei dentini?»
Balbetta un no.
«Gnomi? Folletti?»
No. No.
«Uomo nero?»
No. 
Sospiro di sollievo.
«Befana?»
«Be', quella esiste. È la sorella di tua nonna, la zia Alberta»
Ridiamo insieme.
«Senti Eli, ti ricordi quella storiella che ti raccontavo da piccola, quella della bambina che schioccava le dita, diceva la parola magica e le cadevano dal cielo dolci e caramelle?»
«Zim Zabardin!»
«Esatto. Quante volte hai provato a farlo? Fino a che non hai capito che era solo una storia, una bella storia»
Mi prende la mano.
«Babbo Natale è lo stesso: una bella storia»
Mordicchio delusa il lembo del lenzuolo che sa di mamma e lavanda. Lei mi abbraccia e mi posa le labbra sulla fronte.
«Sai, c'è un vantaggio in tutto questo», continua.
Penso alla delusione che mi sta mordendo ancora i piedi e aggrotto le sopracciglia.
«Da oggi puoi scoprire un altro piacere, migliore di quello di ricevere regali da un pancione vestito fuori moda»
Ho i miei dubbi, mamma, penso.
«Dai, andiamo intanto a scartare i regali. Poi te lo dico», conclude.
Nonostante tutto sono eccitata mentre strappo la carta: è un regalo gigantesco, una casa colonica per le mie bambole. Tanti piccoli mobili rifiniti in stile vittoriano. Un ascensore che funziona davvero. Uno specchietto a forma di fagiolo dove tuffarmi per refrigerarmi dalla calura. Un pratino all'inglese.
Verifico che il piacere di ricevere regali è ancora intatto. I regali hanno un'aria meno brillante di polvere magica, ma me ne dimentico mentre sistemo le mie bambole sopra il minuscolo divano imbottito e sul prato, a tirare la palla al cane. 
«Vestiti ora», mi dice la mamma «ti porto in un posto»
Le obbedisco silenziosa. Ho la sensazione che questa sia una specie di iniziazione. Salirò lo scalino del mio essere adulta, oggi, penso orgogliosa mentre mi imprigiono in uno dei maglioni della mamma: busto troppo stretto.
Lei è già sulla soglia, con in mano un pacchetto colorato e due grandi borse di carta. Scendiamo le scale del condominio in silenzio, lei davanti e io dietro. Sta sorridendo, lo so anche se non riesco a vederla in faccia, perché avverte quella curiosità elettrica che irradio. Al secondo piano si ferma davanti a una porta grigia.
«Sai chi abita qui?», mi chiede la mamma.
Annuisco. È la casa di Giovannino, anni sei, il bambino con le camicie a quadretti della Caritas. Il bambino delle collette per la merenda. 
Bussiamo e dopo pochi secondi la faccia tonda e un po' assonnata di Giovannino si incastra nello spiraglio della porta. Poi riconosce la mamma e spalanca tutto: occhi, bocca, porta.
Il soggiorno è decorato con lucette intermittenti e campanellini, palline spaiate, babbi Natale un po' sgualciti, una renna di peluche dal pelo scompigliato. Su un tappeto logoro ci sono quaderni e libri. Sulla tavola i bricioli di una colazione recente.
«A Giovannino piace tanto leggere, sai?», mi dice porgendogli il pacchetto colorato. Intanto dalla cucina è comparsa anche la mamma di Giovannino.
Dalle buste mamma estrae dei vecchi giornalini che avevo dimenticato, vestiti per Giovannino, alcune scatole di pasta, biscotti, tonno, pane in cassetta.
Giovannino strappa la carta del suo regalo, la scava come un cucciolo che vuole continuare a giocare. Emette gridolini di gioia quando vede i libri, abbraccia la mamma, si mette a sfogliarli avido, ringrazia ancora la mamma, poi me.
Ci fermiamo quasi un'ora a casa loro, sommerse dalla loro felicità. E dentro di me sento quella sensazione tutta nuova, inesplorata. Il piacere di cui parlava la mamma. Un piacere che si allarga dentro di me, che mi riempie completamente e mi fa sentire grande e piccola allo stesso tempo.
Mentre usciamo mi sembra che tutto il mondo brilli di polvere magica.


È il Dicembre del 2000, la vigilia, esattamente, e ho ventidue anni. 
Le mie mani riempiono piatti di plastica. Arriva Pino, per primo.
«Lasagne?», chiede. È un ometto basso. Risiede all'angolo tra il negozio di calze e la caffetteria insieme al suo cane, Argo. Letto cartonato. 
Gli passo un piatto fumante. 
Dietro di lui aspetta Rosa, occhi grandi e liquidi, dilaganti. È la donna degli stracci. Ringrazia per le lasagne e subito si mette a confabulare di qualcosa con il suo vicino al tavolo. 
La sala della mensa dei poveri è piena di gente in fila per la sua porzione di lasagne e pollo arrosto. Un vera cena da vigilia di Natale. Li guardo e sono felice. Mi godo quella sensazione che ho ormai interiorizzato, che non è più nuova, ma che non smette mai di sorprendermi. 
E tutta la sala brilla di polvere magica.









lunedì 11 dicembre 2017

Nelle terre di nessuno, C. Offutt, una quasi recensione

Quest’anno, al Pisa Book Festival, sono andata decisa su quale libro comprare: Lincoln nel Bardo, il nuovo romanzo di Saunders. Dopotutto, la Minimum fax è presenza fissa, in quanto editore indipendente. Mi infilo quindi tra la folla decisamente numerosa delle sei della domenica pomeriggio e, mappa alla mano, trovo lo stand. Do un’occhiata veloce sul banco e non lo vedo: strano, penso, s’è appena vinto il Man Booker Prize questo libro, e non è in pole position? Allora faccio la scema e chiedo: ma dove li tenete i libri di Saunders? La ragazza si spacca in quattro per mostrarmi la nuova bellissima copertina di Dieci dicembre. Poi mi mostra Nel paese della persuasione. Sì, le faccio, questi li ho già, cercavo il romanzo, quello nuovo. 
Ah, mi fa lei, ma quello non è nostro! È Feltrinelli! 
Come Feltrinelli? Avete pubblicato tutto Saunders finora e il romanzo è Feltrinelli? 
La ragazza mi guarda con un mezzo sorriso. Fanno sempre così, mi dice. Li scopriamo noi e poi quando sono già famosi se li prendono e li fanno vincere lo Strega… e mi mostra la nuova copertina di Sofia si veste sempre di nero, di Cognetti. Sto quasi per andar via, delusa e rammaricata per la povera casa editrice scopritrice di talenti a cui fregano i romanzi all’asta, quando sollevo una copertina rossa e un nome nuovo. Diciamocelo: io, i titoli della Minimum fax li conosco tutti, anche prima che escano in libreria. Ma quello no. Quello mi è nuovo. Chi è? , chiedo alla ragazza. Lui è bravo, mi fa mentre cerca di ascoltare la signora accanto a me che ha due libri in mano. Ma questo com’è?, bela la tizia. Ha in mano A pesca nelle pozze più profonde. Rispondo io. Questo è per gli addetti ai lavori, signora. Vuole un Cognetti? Si prenda Sofia e non ne sarà delusa. La signora mi dà retta, paga Sofia e se ne va. Io resto con Chris Offutt in mano. Nelle terre di nessuno. Quarta di copertina: 

Insomma, quel vento portò l’odore di Dorothy in tutto il bosco, e l’odore attirò un orso. D’inverno dormono, e quando si svegliano sono così affamati che si mangerebbero un’incudine. L’orso la seguì per un quarto di miglio e Dorothy non se accorse mai. Forse cantava, non lo so. Per una donna cantare per la propria bambina è naturale come per un orso mangiare carne. Non si può dare la colpa alle colline per quello che ci succede in cima. Qualcuno incolpa Dio, ma non credo che lui si preoccupi troppo di quello che succede lassù.

Tra poco esploderà anche lui, mi fa la ragazza. Come Cognetti e Saunders. Abbiamo già intenzione di pubblicare altri suoi libri. insomma, inutile dirlo, mi convince al volo, sgancio il contante e me lo infilo nella borsa. 
Non amo leggere le recensioni prima di iniziare un libro, quindi, una volta a casa, mi tuffo nelle pagine. Il primo salto, però, è come buttarsi in un laghetto gelato. Nonostante io provi a pestare i piedi, il ghiaccio non si rompe e resto lì, infreddolita e delusa. Ma sono racconti e non mi do per vinta. La perseveranza mi premia. Non tutti i racconti sono ghiaccio che non vuole rompersi. Andando avanti nella lettura inizio a comprendere il mio disagio. In realtà la scrittura è estremamente precisa, lineare, chiarissima. È uno stile che descrive senza trasmettere emozioni. Storia dopo storia, personaggio dopo personaggio, ci si addentra in un Kentucky fatto di alcol, degrado, occasioni perdute, miseria, superstizione. Un mondo che per me era quasi sconosciuto. Molti i racconti riusciti al cento per cento, tra cui Luna calante, Blue Lick e Zia Lith, l’ultima levatrice, uno dei miei preferiti, dove i personaggi finiscono in una spirale ineluttabile di semi follia, in mezzo a credenze antiche come il mondo e rimpianti. Insomma, chiudo l’ultima pagina quasi con sollievo. Ed eccolo, il mio disagio, svelato nella sua elementare forma umana: tutta questa brutalità, questa mancanza di redenzione, questi cattivi odori, cattive azioni, il menefreghismoo, l’alcolismo, la vecchiaia, insomma, questi racconti concentrano tutto quello che un uomo preferisce fingere di non vedere. E qui allora sta la sua forza: costringerti a farlo, farti scendere dalle nuvole dorate in cui vorresti essere leggendo un libro solo per svagarti. Ti presenta la realtà nella sua versione più ruvida. E attecchisce. Eccome se attecchisce. Ti resta addosso una sensazione che bella non lo è affatto, ma sai che è vera. E come al solito se c’è una cosa che apprezzo è proprio questo in un libro, la sua onestà. 
Quindi a Offutt un bel voto, certo. Anche alla mia casa editrice preferita, ovvio. Che come al solito non sbaglia un colpo. 







mercoledì 15 novembre 2017

Foglie, ombrelli e zainetti rossi: Paolo Cognetti al Pisa Book Festival

L'ultima volta che sono andata a sentire la presentazione di un libro a cui tenevo moltissimo (era Foer, a Sarzana, Festival della mente, presentava Eccomi), la batteria dell'auto mi ha lasciato a piedi e ho rischiato di mandare tutto all'aria. L'ho visto come un segno di qualcosa, anche se non sono riuscita a dargli un significato. Ecco perché quando parto, oggi, per il Pisa book festival, dove Paolo Cognetti presenta Le otto montagne, mi stupisco che non ci siano intoppi: riesco a uscire mezz'ora prima dal lavoro, come previsto, nessuna fila chilometrica in Fi-Pi-Li, già un miracolo di per sé. È vero, piove, ma insomma, non è un temporale.
Quindi, se questo fosse un racconto, arriverei al Palazzo dei congressi in perfetto orario, farei pochissima fila per il biglietto, sistemerei l'ombrello nel portaombrelli con la certezza che sarà lì al mio ritorno, entrerei e mi fermerei al primo punto ristoro per un caffè, che anche se è l'ottavo della giornata non importa. Dopotutto è un racconto, no?
Del tutto casualmente mi ritroverei accanto a un ragazzo con la camicia verde a quadri e lo zainetto rosso. Voltandomi, deliziata ma non davvero stupita, direi, con una voce assolutamente tranquilla e calma: Paolo, posso offrirti un caffè in cambio di un autografo? Da lì partirei a vomitargli addosso tutto quello che avrei sempre avuto voglia di dirgli: che di Sofia mi sono innamorata fin dalla prima pagina, che lui, e lui solo, ha cambiato il mio modo di vedere la narrativa italiana, che con i suoi racconti ha allargato i miei confini di scrittura, che Le otto montagne è un romanzo talmente bello e rilassante che andrebbe consigliato come terapia antistress.
Ma questo non è un racconto. E alla realtà non si sfugge.
Quindi arrivo al Palazzo dei congressi perfettamente in orario. Compro il biglietto dopo aver fatto poca fila, entro e poso il mio ombrello all'ingresso, sicura che non lo ritroverò quando andrò via. Controllo la sala dove si terrà la presentazione e mi avvio. Niente caffè. Sarebbe l’ottavo della giornata, meglio non sfidare la sorte.
C'è un sacco di gente nella sala Pacinotti e fa un caldo allucinante. Ma grazie ad amiche molto più organizzate di me trovo un ottimo posto e quando lui arriva, camicia verde a quadri e zainetto rosso, ho una visuale quasi perfetta.
È abbronzato, mi fa la mia amica.
Vero. È abbronzato e ha una barba che assomiglia al mio cervello dopo dieci ore di lavoro. Ma appare rilassato, perfettamente a suo agio accanto a Lucia della Porta, che è lì per intervistarlo.
Attacca chiedendo il significato delle Otto montagne. Otto. Un numero che per noi occidentali, legati al cristianesimo, ha poco significato, ma che per il buddismo invece è legato al concetto di karma: le cattive azioni in questa vita devono essere compensate nella vita successiva. Per arrivare al Nirvana il buddista deve porre fine al ciclo delle reincarnazioni seguendo le otto vie del Dharma. Paolo vuole mettere l'accento sulla spiritualità della montagna.
Ma per lui ha un significato anche pedagogico. Ed è esattamente quello che traspare dalle pagine del suo libro. La prima parte è dedicata alla montagna che passa attraverso la figura di suo padre, ed è una montagna che insegna disciplina e tenacia. Mentre la seconda parte è dedicata alla montagna spirituale, un luogo di meditazione. Chi arriva ai ghiacciai si trova immerso nella Natura, nella Wilderness. Senza mediazioni. E scopre se stesso.
Cardine del intervista mi è sembrato la nota più o meno autobiografica, sulla quale Della porta ha insistito molto. Ma chiunque sa che scrivere prescindendo da se stessi è impossibile. Ed ecco che il padre di Pietro, il protagonista, è molto simile al padre di Paolo. Ma è anche il riassunto di tanti altri padri letti nei libri, dal suo primo amore, Carver, a Hemingway. Stessa sorte per la figura femminile più forte di tutto il romanzo, la madre, una donna di altri tempi, egregiamente dipinta, cosa che a Cognetti riesce dopotutto benissimo: le donne nei suoi racconti sono sempre molto presenti in tutta la loro femminilità.
Della Porta ha infine rivolto una domanda interessante.
Sull’amicizia. L'amicizia è un sentimento che si palesa prepotente nel libro, che scavalca confini e si trasforma. Il personaggio di Bruno, amico d'infanzia legato al piccolo paese di montagna di Grana, si contrappone a Pietro, quasi rendendoli la diversa faccia della stessa medaglia, con un legame che durerà tutta la vita. Paolo lo descrive come un sentimento sovversivo di questi tempi. Con ben poca ironia, condanna la famiglia attuale, all'interno della quale un adolescente si sente fin troppo protetto. E quindi i rapporti sociali al di fuori di essa tendono a necrotizzarsi, spazzando via un mondo che era, invece, fatto di rapporti scelti in prima persona.
L'intervista chiude il cerchio e torna al mandala delle otto montagne, ben spiegato nel libro: all'interno del mandala c'è un monte altissimo, il Sumeru, mentre sulla circonferenza ci sono otto montagne, separate da otto mari. La domanda rimane aperta: chi avrà imparato di più? Chi è arrivato in cima al monte Sumeru o chi ha fatto il giro delle otto montagne? Chi si sposta nello spazio, un po' come Boccadoro, ci ricorda Cognetti, o chi si sposta nel tempo, come Narciso?  
A questo punto mi torna alla mente un passo proprio di Hesse:  Noi due, caro amico, siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra. La nostra meta non è di trasformarci l'uno nell'altro, ma di conoscerci l'un l'altro e d'imparare a vedere e a rispettare nell'altro ciò ch'egli è: il nostro opposto e il nostro complemento.
E quindi la montagna unisce questi due opposti, Pietro e Bruno. Così come unisce Paolo e il resto del mondo. E lo fa grazie a un libro.
L'intervista volge al termine, forse troppo presto. E nella sala Pacinotti cade leggera una foglia. Reale. Chissà da dove è arrivata. Qualcuno la vede, tra i presenti, qualche commento, sembra magia. La natura che saluta le Otto montagne. Me ne vado dal Book festival con questo pizzico di magia nel cuore.
E forse è questa magia che fa sì che il mio ombrello sia ancora all'ingresso, non toccato. Ha smesso anche di piovere. Mentre esco vedo in lontana uno zainetto rosso. Forse correndo un po'..., penso. Ma di magia per oggi ne ho avuta già abbastanza.
Mi volto dalla parte opposta e cammino verso la macchina.




mercoledì 9 agosto 2017

Almeno per un momento, di Giulia Romoli

Dall'altra stanza arriva un grido. Fuori è notte, il tuo orologio segna le tre e venti. Ti giri su un fianco, pensi che prima o poi  smetterà. Ma il grido si ripete. Aiuto. Per favore, aiutami. Schiacci la testa sotto il cuscino, le urla sono solo più sottili. Ti prego, ti prego, aiuto.
Ti alzi e ti accorgi che fa caldo in casa. Hai di nuovo dimenticato il riscaldamento acceso.  Lei non lo avrebbe fatto, lo avrebbe spento prima di andare a letto. Non dimenticava nulla, prima.
Nel corridoio le grida sono più forti, apri la porta della stanza e la sua figura ti appare deformata nell'oscurità, rigida, ha una mano alzata come per difendersi, indica l'orologio sul suo comodino.
Falle smettere, Marco. Vogliono uccidermi, falle smettere.
Stacchi veloce la presa dell'orologio e le luci si spengono. Lei ti crolla tra le braccia appena ti siedi sul letto. Ha la maglietta bagnata di sudore e i capelli incollati al viso.
Domani, ti riproponi, imposterò il timer sul termostato.
Alle undici di mattina suona il campanello.  Scatti in piedi appena ti accorgi che fuori c'è il sole e tu non dovresti essere lì, ancora a letto. Spalanchi la porta della sua stanza: lei non c'è. Il letto è rifatto alla perfezione, nemmeno un piega. Scendi veloce le scale, la cerchi in cucina, nel bagno. Il campanello suona di nuovo, lo avevi dimenticato, ti chiudi con un nodo la vestaglia, ti guardi di sfuggita allo specchio, sistemando i capelli grigi dietro le orecchie, sono troppo lunghi, il barbiere, maledizione, devi ricordarti di chiamarlo, ma cosa ti viene in mente, adesso, devi trovare lei, aprire la porta, devi...
Accanto a tua moglie c'è una donna giovane, in divisa. Le tiene una mano sulla spalla.
Farfugli qualcosa mentre la donna ti chiede se la persona accanto a lei è Marta Corbi. La signora abita qui? Mentre ti parla noti una macchia di fango sui pantaloni del pigiama di Marta. Glieli hai messi puliti solo ieri sera.
 Mi scusi,  mi scusi davvero, io credevo di avere chiuso a chiave la porta di ingresso, forse ho dimenticato, la notte dormiamo poco. Siamo soli, qui, io e lei.
Signor Corbi, sua moglie sta bene, ci hanno chiamato dal negozio di fiori qui vicino, la conoscono.
Sì, le piacciono i fiori.
Quando vi sedete a tavola lei non vuole mangiare. Non ho fame, dice. Incrocia le braccia e ti fa il broncio. Guarda che più tardi viene il dottore e glielo dico che non hai mangiato, minacci. Prendi la forchetta e infilzi due ravioli collosi, apri la bocca, le dici, di più, insisti, di più!
 Lei si volta lentamente, le braccia sempre incrociate sul petto magro, ti guarda con aria di sfida.
Di più non riesco, Katia.
Scagli il piatto contro il muro.
 Maledizione, non sono Katia, non lo vedi? Non lo vedi che sono tuo marito?
Lei ti guarda spaventata, trema dentro a quel corpo fragile e tu la abbracci. Non è colpa tua, le dici mentre la culli, non è colpa tua, ripeti.
Senti il suo corpo che trema sotto di te, sta piangendo.
Ricomincia  a urlare, quel grido ti lacera, ti tappi le orecchie ma non riesci a non sentirla, Katia, urla, la mia bambina, me l'hanno ammazzata. Torneranno, lo vuoi capire? Torneranno e prenderanno anche me, e non sai, non capisci quanto davvero sappia, quanto davvero si ricordi, sai solo che ti ferisce le orecchie, piantala!, le urli tu, inciampi in una sedia, quasi cadi, ma ti reggi al tavolo con le mani.
Corri in cucina e le prendi le medicine, versi l'acqua in un bicchiere, estrai il contagocce, una, due...cinque...dieci, conti veloce.  Ti fermi. Lei continua a urlare, dondolandosi avanti e indietro. Guardi quel corpo che si sta rimpicciolendo sotto il tuo sguardo,giorno dopo giorno, ora dopo ora.  Butti il contagocce nel lavandino e rovesci nel bicchiere tutto il flacone.
La afferri per le spalle. La devi piantare, Marta, verrà su tutto il vicinato, se non la pianti.
Portami da Katia, portami dalla mia bambina, ti prego!
Va bene, calmati e ti ci porto. Più tardi, però, quando ti sarai calmata. Ti porto io.
Cos'è?, ti chiede quando le  porgi il bicchiere.
Solo un po' d'acqua, Marta, bevi. Così ti calmi.
Ma è amara!
Ti sembra così perché hai pianto. Bevi.
Posa il bicchiere vuoto davanti a sé.
Sei un bravo ragazzo, ti dice.
Te lo disse anche il primo giorno che vi siete conosciuti. Chiudi gli occhi e lei ha quel vestito a fiori , era così bella, tu le sei accanto, felice, maledettamente vivo, pieno di futuro, per sempre, per un momento.  
Almeno per un momento.
Quando apri gli occhi fuori è di nuovo notte e il tuo telefono segna le due e quarantacinque. Sei sudato e ti fa male il collo, ti sei addormentato sulla poltrona. C'è caldo in casa, di nuovo hai dimenticato di impostare il timer del termostato. C'è anche silenzio, in casa.
Ti alzi e vai in camera, apri l'armadio e tiri fuori il completo di velluto, lo indossi e ti accorgi che ti sta grande, anche tu sei rimpicciolito. In bagno ti sistemi i capelli, li spingi indietro con il pettine.
Scendi le scale e ti avvicini al telefono. Componi il numero con lentezza.  Dopo molto tempo risponde una voce impastata dal sonno.
Pronto? 
Una pausa. Senti il rumore di un interruttore, un fruscio di vestiti, un bambino che piange.
Papà sei tu? Si sono svegliati i bambini, scusa, ma che succede?

Katia, riesci a dire alla fine. È per la mamma ...




venerdì 14 luglio 2017

Fernanda, Giulia Romoli

“Vacci piano, che così ti porti via un dito, eh!” gli dice Josè dall'altra parte della cucina. I vapori delle pentole gli impediscono di vederlo, ma dal tono della voce Fernando sa che sta ridendo. Guarda il coltello e le sue unghie che vorrebbe laccate di rosso, come la sera. Ma è giorno, a João Pessoa. E di giorno si indossano i pantaloni.
Josè è bello:  Fernando vorrebbe perdersi in quegli occhi ubriachi di notti insonni, desidera le sue mani sopra di sé, sopra un corpo ancora acerbo. Vorrebbe lasciarlo quel lavoro che trasuda grasso dalle mattonelle, che  sa di fritto sulla pelle, di pentole incrostate, di verdure marce, di carne putrida. Ma che profuma di Josè, della sua pelle di bronzo, dell'accenno di barba sugli zigomi. E mentre affetta le verdure cerca il suo sguardo, cerca una conferma. E Josè alza gli occhi, lo guarda, si avvicina. Indica una cameriera appena fuori dalla porta e sorride.
“Se tutto va bene quella stasera me la faccio ...", dice Josè.
"Non mi sembra granché", (risponde Fernando).
"Tu scherzi, vero? Glielo hai visto il culo?"
"Ce ne sono di meglio"
"Ma che, non sarai mica frocio?"
“Il tuo turno è finito!” gli dice qualcuno toccandogli una spalla. Fernando si toglie lentamente il grembiule ed esce senza dire nulla.
Nella notte brasiliana cammina sicura sui tacchi, mentre una pioggia vivace di luci le bagna i capelli. La città è colorata, è viva. Gli si mostra come un vestito di paillettes, luccicante ovunque volga lo sguardo. La incanta, la inebria. È ricca di possibilità e lei le vuole cogliere tutte. Per l'Avenida affollata del barrio della Torre ride, è felice, è Fernanda lì e può dimenticare le pentole, la puzza. Può dimenticare Josè.
Una macchina accosta al marciapiede. Dentro un gruppo di ragazzi ridono, ubriachi.
“ Vuoi un passaggio, bella?” dice quello alla guida.
Un altro dietro abbassa il finestrino e ride.
"Non lo vedi che è un maledetto veado?"
Fernanda quella voce la conosce e si tira indietro spaventata, tenta di coprirsi il volto, rifugiandosi nell'ombra, ma ormai è tardi, Josè l'ha vista. Mentre l'auto riparte, lui si sporge dall'auto, la bocca spalancata, e Fernanda lo segue fino a che la strada non ingoia la sua figura.
Il giorno dopo la cucina accoglie Fernando in silenzio, nessuno parla, l'aria è vischiosa e immobile. È Josè il primo a rompere quella che agli occhi di Fernando sembra una fotografia, posa il coltello con forza sul tagliere, si avvicina e il tempo svanisce nell'attesa di un gesto. Entrambi alzano le mani, il primo per attaccare e il secondo per difendersi, e in quel momento Fernando ha di nuovo sei anni e davanti allo specchio nella sua stanza lascia cadere le noci di cocco che teneva premute sul petto, alza le braccia sulla testa, ma sua madre lo colpisce lo stesso con tanta violenza da farlo cadere a terra.
"Mamma, ti prego" bisbiglia Fernandinho  steso sul pavimento unto della cucina.
"Non ti voglio nella mia casa", urla sua madre.
"Non ti voglio nella mia cucina", urla Josè.
Il tempo si ricongiunge e le luci del neon gli lacerano gli occhi.
Fernanda è nella sua stanza, si sta vestendo per uscire. Ammira allo specchio la sua nuova nudità: i piccoli seni, le natiche gonfie. Ancora un po' di sofferenza sulla pelle, ancora il ricordo degli aghi. Ma il dolore della bellezza non le fa paura. Rifinisce gli occhi, passa leggera il rossetto, va incontro a una nuvola di profumo.
Il marciapiede quella sera la accoglie e la invita al suo nuovo spettacolo. Si mostra agli uomini, manda baci divertita alle sue compagne. Un passante le tocca la spalla, le chiede un po' del suo tempo, le indica una macchina. Ha qualcosa di commovente negli occhi e le mani rassicuranti.
“Ti faccio un po' di sconto se ti fai chiamare Josè”, gli dice seguendolo.
“ E io, come ti devo chiamare?”
“ Io sono Princesa”.     


Oro colato, Edoardo Albinati

Ho  letto nel corso di questi ultimi anni un sacco di libri sulla scrittura. Molti sono semplicemente consigli, alcuni veri e propri manuali, si parla di plot, climax, anticlimax, costruzione del personaggio etc. Questi ultimi sono indubbiamente utili per chi come me è alle prime armi, ma del tutti freddi. È il lavoro di falegnameria di cui parla Cerami. Tutta la magia che invece si nasconde dietro all'atto della scrittura vi è quasi negato.
Albinati in questo saggio non scrive solo di magia. Ma riesce in una mediazione che devo dire mi ha colpito molto. Sono le trascrizioni di otto lezioni non di scrittura, ma sulla materia della scrittura.
In modo del tutto inaspettato ci accompagna alla scoperta della nascita di un libro, dal primo spunto che genera il desiderio in colui che scrive, fino all'ultima parola messa nel testo. O cancellata. Il concetto di demolizione è sempre presente, così come quello del sacrificio. Questa idea quasi religiosa della scrittura (o magica) credo sia la mia preferita: dietro ad ogni opera che volge alla perfezione, scrive Albinati, si nasconde un atto essenzialmente di carattere distruttivo. Bruciare incenso, spandere olio, sgozzare il capro. Poco dopo introduce un tema ulteriore: l'officiante in qualche misura diventa egli stesso l'oggetto del sacrificio. Il sacrificante diventa il sacrificato.

Con un stile discorsivo che coinvolge e che, sinceramente, mi ha fatto apprezzare ulteriormente questo saggio, e moltissime idee illuminanti, non posso che raccomandare questo libro a chiunque desideri capire il meccanismo che muove l'uomo a cercare carta e penna. Ma anche semplicemente a leggere un buon libro.





domenica 26 febbraio 2017

L'addio, Antonio Moresco

Tempo fa sono rimasta coinvolta nella discussione dello Strega. Again. Moresco, escluso dalla cinquina dei finalisti con il suo ultimo romanzo, L'addio,  si lamentava pubblicamente.  Mi ha ricordato Pasolini, di cui tra l'altro è stato estimatore e studioso. Avevo letto il libro della Stancarelli, giunto in finale, e altri libri di Moresco. Di Moresco riconoscevo l'indubbia abilità letteraria ( e poi, perché no, mi piacciono pure le sue idee), la Stancarelli mi aveva invece enormemente delusa. Il vincitore, poi, non ne parliamo...
Tutto questo per dire che quando ho aperto, a mesi di distanza, L'addio, ero piena di Grandi Speranze.
Sin dalle prime pagine ho riconosciuto il suo stile secco  e lenitivo  e mi sono entusiasmata. Con il procedere l'entusiasmo però è calato.
La trama è a dir poco coinvolgente: uno sbirro morto, che faceva lo sbirro da vivo nella città dei vivi e continua a farlo da morto nella città dei morti, viene ingaggiato da un certo Lazlo per tornare nella città dei vivi e sterminare il male che sta dilagando e che uccide tutti i bambini in modo atroce. Uno di questi bambini morti lo accompagna nel suo viaggio, per aiutarlo a scovare chi lo ha trucidato.
Ovviamente questo NON è un romanzo poliziesco. Moresco ce lo dice subito, nella prefazione, dove dichiara il suo intento scrivendo questo suo (ultimo?) romanzo. Il tema è molto più grande. Moresco si interroga e ci interroga sulle radici del male, sulla vita e sulla morte, si chiede e ci chiede cosa venga prima e cosa dopo, si interroga sull'amore e ce lo porge come l'unico tocco di colore in tutto il libro.
Assistiamo a tre giorni di sangue, atrocità, facciamo la conoscenza di uomini sadici e senza scrupoli, scendiamo le scale di scantinati, entriamo in aule di asili deserti, bussiamo alle porte di donne che urlano, cerchiamo bambini dentro container.
È la descrizione di un incubo senza soluzione di continuità. Lo stile è quello onirico e le scene sono sia reali che irreali, esattamente come accade dormendo. Questo è la sua peculiarità.
Per gran parte del romanzo continuavo a pensare: perché ci ripete tutto in modo così angosciante?  Perché sempre le stesse domande? Troveranno una soluzione, questi interrogativi? Ovvio che conoscevo già la risposta. Non puoi chiederti Chi sono? , Cos'è la vita e cos'è la morte? o Perché sono qui e ho fatto questo? e sperare di trovare una risposta.
Il tempo e la vita ce li descrive in modo circolare. Tutto è prima e tutto è dopo, perché in realtà non esiste un prima o un dopo, non esiste la morte senza la vita, non esiste il bene senza il male.
Non nego di aver fatto una gran fatica a leggere. A cercare di capire le milioni di metafore con cui inonda il libro. E no, non le ho certo capite tutte. Forse ho solo finto di capire, per trovare una logica in un luogo, questo creato da Moresco, dove la logica non può esistere.  Le infinite e ripetute domande che lo sbirro morto si fa, e non solo lui, ma anche gli altri personaggi, sul significato della vita non trovano risposta. Anche se Moresco vuole farci capire che il finale sia in un certo modo risolutivo, che lo sbirro capisca, Perché adesso so che, dichiara nell'ultima pagina.
Quello di cui sono sicura è che il compito della letteratura è esattamente questo, però: crearci domande, darci una prospettiva diversa della vita, spostare i mobili in quella casa che è il nostro cervello. E Moresco lo fa. Non sono convinta che ci sia solo la critica sociale, tra le pagine. C'è anche la voglia di capire, e farci capire. Ed è questa la forza più grande di Moresco. Non darsi per vinto, esattamente come il protagonista.
Un libro complicato, pesante, dove non è lo stile che colpisce, ma quello che sta dietro, dove lo stile asseconda, non è protagonista.
Un libro da leggere.









giovedì 23 febbraio 2017

Le otto montagne- Paolo Cognetti

La prima volta è stato con Sofia. Ho letto due sole pagine e me ne sono innamorata. Poi ho percorso il fiume al contrario, sono arrivata ai suoi primi racconti. Mi ha sempre colpito il suo stile, così dannatamente preciso. Eccolo, il cavallo di battaglia di Cognetti: quell'incredibile precisione delle parole. Sulla pagina si dischiudono come fiori.
"Le otto montagne" è il suo primo romanzo. Valeva la pena di aspettare che sperimentasse prima con i racconti se questo è il risultato: duecento pagine di meraviglie. Sono le meraviglie del paesaggio, prima di tutto. Ogni valle, ogni fiume, ogni cima ce la descrive come una cartolina. Siamo accanto a Pietro ad ogni passo, abbiamo il suo mal di montagna appena l'aria tende a rarefarsi, sbuchiamo dalla nebbia, salendo, e il sole ci coglie in piena faccia, ci stupiamo insieme a lui della maestosità della natura.
Le altre meraviglie sono quelle umane. Perché sebbene la montagna sia la calamita, i personaggi di Cognetti ci gravitano intorno. Pietro si allontana sempre, ma la sua base sicura è sicuramente lì, in mezzo al nulla, nella sua casa con due grandi finestre come occhi sul lago. Lì riesce a costruire forse l'unico legame davvero forte della sua vita, quello con Bruno, un montanaro. Bruno è quello che resta, Pietro quello che torna. Il romanzo gira attorno a questi due ragazzi, che piano piano si trasformano in uomini, ognuno con il proprio carattere, ognuno con le proprie attitudini, ma entrambi innamorati di un posto che  ci viene dipinto con purezza.

Inutile dire che mi ha fatto venire voglia di mollare tutto e andarmene in montagna. Io che amo la vita comoda e detesto il freddo. Quando uno scrittore riesce a trasmettere l'amore pagina dopo pagina, quando te lo inietta nella mente, allora è un bravo scrittore. Come Paolo Cognetti. 







martedì 7 febbraio 2017

Tutti tranne Giulia, Michela Tilli

La trama è molto semplice: Giulia, insegnante di mezza età, madre di due splendidi figli e donna sposata che conduce una vita apparentemente senza problemi, si suicida.  Michela Tilli ci racconta cosa succede a chi resta, la famiglia in primis, ma anche il suo psicoterapeuta, Da Col, la sua migliore amica, Donata e il maresciallo Di Pietro, incaricato di condurre le indagini sul caso. Tutti vengono segnati da questa nuova assenza, tutti dovranno venirne a patti. Tutti dovranno cercare di scoprire la loro verità per poter continuare a vivere.
Ed è proprio una grande riflessione sul significato della vita, questo libro, che parte dalla sua negazione, la morte, ma la allontana e la avvicina continuamente, così da farci comprendere che non si può parlare del bianco se non si conosce il nero. Ho trovato molto bello avere l'opportunità di vedere come le vite di questi personaggi vadano avanti proprio grazie a questo evento di per sé tragico. Come si trasformino in coraggio di vivere, proprio perché faccia a faccia con la morte. Ma nessuno di loro riflette mai direttamente su questo punto.  Ed è questa la sottigliezza più bella del romanzo. Forse non sarà niente di nuovo, ma questo non rientra nella mia forma mentis di lettrice. Non è mai il cosa per me.
Quindi si passa al come.  E le cose si complicano.
Devo dire che sono rimasta piacevolmente sorpresa da questo libro, che ha un incipit banale dal punto di vista stilistico. La prosa dell'autrice spesso è piatta, priva di emozione e ciò stride spesso con ciò che vuole dire, che invece per avere un certo spessore dovrebbe caricarsi di patos. Ma spesso non significa sempre ed è qui che sono rimasta imbrigliata. Ci sono pagine davvero molto belle, ricche di poesia. E non solo quella che la defunta lascia segretamente in eredità. Riesce, anche se non pienamente, a coinvolgerti.  Forse avrei avuto meno fretta di scriverlo, questo romanzo. Forse, dico forse, qualche revisione in più l'avrei fatta. Avrei limato le parole, tolto qualche parte didascalica, alleggerito alcuni punti, indagato meglio nelle anime dei personaggi, che spesso restano un po' caricaturali. Ma in generale devo dire che non mi è dispiaciuto. Mi ha fatto riflettere e questo lo trovo il suo punto forte. 

Insomma, devo dire che è comunque il mio genere e se mi capiterà leggerò ancora qualcosa di questa autrice.







giovedì 5 gennaio 2017

Per me non esiste altro, Bernard Malamud

La scrittura come arte, la scrittura come indagine dell'uomo e di se stessi, la scrittura come vita. Sono questi i nodi che compaiono e si sciolgono in questo breve libro dove Francesco Longo ci guida attraverso le parole di Malmud per condurci nella sua stanza segreta, quella in cui uno scrittore è meglio che vada ed è meglio che stia lì dentro e scriva.
Malamud ci offre una panoramica sulla vocazione, sull'immaginazione, sulla moralità della scrittura, sul simbolo di un buon romanzo e lo fa con precisione e chiarezza, consigliandoci come farebbe un padre.
Una delle riflessioni più belle parte dal principio che regge la letteratura, che vede come un modo per arrivare alla comprensione di se stessi e metterci in comunicazione con gli altri esseri umani.  Quindi scrivere ricordandoci dell'anima e dell'umanità dei personaggi, prima di tutto. Essere onesti. L'onestà nella scrittura è una vera e propria legge scritta sulla tavola.  E poi lo stile, che sia libero e sopratutto preciso.
Ogni volta che leggo un saggio di questo tipo la voglia di mettermi alla tastiera è talmente forte che vorrei alzarmi anche in piena notte, e forse è proprio per questo motivo che li leggo. Per ricordare a me stessa che non è del tutto inutile quello che sto facendo. Che il patto fatto con me stessa ha valore, anche se ogni giorno mi chiedo se io abbia il talento. E che provarci, comunque, non è mai una perdita di tempo. Leggere Malamud mi ha confermato che scrivere è un'indagine, di se stessi  e del mondo. È un modo per venire a patti con la vita. E la fatica e a volte il dolore verranno ripagati con la consapevolezza.

Per me non esiste altro, dice. La sintesi di una storia d'amore comune a molti.