Tempo fa sono rimasta coinvolta nella discussione dello
Strega. Again. Moresco, escluso dalla cinquina dei finalisti con il suo ultimo
romanzo, L'addio, si lamentava
pubblicamente. Mi ha ricordato Pasolini,
di cui tra l'altro è stato estimatore e studioso. Avevo letto il libro della
Stancarelli, giunto in finale, e altri libri di Moresco. Di Moresco riconoscevo
l'indubbia abilità letteraria ( e poi, perché no, mi piacciono pure le sue
idee), la Stancarelli mi aveva invece enormemente delusa. Il vincitore, poi,
non ne parliamo...
Tutto questo per dire che quando ho aperto, a mesi di
distanza, L'addio, ero piena di Grandi Speranze.
Sin dalle prime pagine ho riconosciuto il suo stile
secco e lenitivo e mi sono entusiasmata. Con il procedere
l'entusiasmo però è calato.
La trama è a dir poco coinvolgente: uno sbirro morto, che
faceva lo sbirro da vivo nella città dei vivi e continua a farlo da morto nella
città dei morti, viene ingaggiato da un certo Lazlo per tornare nella città dei
vivi e sterminare il male che sta dilagando e che uccide tutti i bambini in
modo atroce. Uno di questi bambini morti lo accompagna nel suo viaggio, per
aiutarlo a scovare chi lo ha trucidato.
Ovviamente questo NON è un romanzo poliziesco. Moresco ce lo
dice subito, nella prefazione, dove dichiara il suo intento scrivendo questo
suo (ultimo?) romanzo. Il tema è molto più grande. Moresco si interroga e ci
interroga sulle radici del male, sulla vita e sulla morte, si chiede e ci
chiede cosa venga prima e cosa dopo, si interroga sull'amore e ce lo porge come
l'unico tocco di colore in tutto il libro.
Assistiamo a tre giorni di sangue, atrocità, facciamo la
conoscenza di uomini sadici e senza scrupoli, scendiamo le scale di scantinati,
entriamo in aule di asili deserti, bussiamo alle porte di donne che urlano,
cerchiamo bambini dentro container.
È la descrizione di un incubo senza soluzione di continuità.
Lo stile è quello onirico e le scene sono sia reali che irreali, esattamente
come accade dormendo. Questo è la sua peculiarità.
Per gran parte del romanzo continuavo a pensare: perché ci
ripete tutto in modo così angosciante? Perché
sempre le stesse domande? Troveranno una soluzione, questi interrogativi? Ovvio
che conoscevo già la risposta. Non puoi chiederti Chi sono? , Cos'è la vita e
cos'è la morte? o Perché sono qui e ho fatto questo? e sperare di trovare una
risposta.
Il tempo e la vita ce li descrive in modo circolare. Tutto è
prima e tutto è dopo, perché in realtà non esiste un prima o un dopo, non
esiste la morte senza la vita, non esiste il bene senza il male.
Non nego di aver fatto una gran fatica a leggere. A cercare
di capire le milioni di metafore con cui inonda il libro. E no, non le ho certo
capite tutte. Forse ho solo finto di capire, per trovare una logica in un
luogo, questo creato da Moresco, dove la logica non può esistere. Le infinite e ripetute domande che lo sbirro
morto si fa, e non solo lui, ma anche gli altri personaggi, sul significato
della vita non trovano risposta. Anche se Moresco vuole farci capire che il
finale sia in un certo modo risolutivo, che lo sbirro capisca, Perché adesso so
che, dichiara nell'ultima pagina.
Quello di cui sono sicura è che il compito della letteratura
è esattamente questo, però: crearci domande, darci una prospettiva diversa
della vita, spostare i mobili in quella casa che è il nostro cervello. E Moresco
lo fa. Non sono convinta che ci sia solo la critica sociale, tra le pagine. C'è
anche la voglia di capire, e farci capire. Ed è questa la forza più grande di
Moresco. Non darsi per vinto, esattamente come il protagonista.
Un libro complicato, pesante, dove non è lo stile che
colpisce, ma quello che sta dietro, dove lo stile asseconda, non è
protagonista.
Un libro da leggere.
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