Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

domenica 26 febbraio 2017

L'addio, Antonio Moresco

Tempo fa sono rimasta coinvolta nella discussione dello Strega. Again. Moresco, escluso dalla cinquina dei finalisti con il suo ultimo romanzo, L'addio,  si lamentava pubblicamente.  Mi ha ricordato Pasolini, di cui tra l'altro è stato estimatore e studioso. Avevo letto il libro della Stancarelli, giunto in finale, e altri libri di Moresco. Di Moresco riconoscevo l'indubbia abilità letteraria ( e poi, perché no, mi piacciono pure le sue idee), la Stancarelli mi aveva invece enormemente delusa. Il vincitore, poi, non ne parliamo...
Tutto questo per dire che quando ho aperto, a mesi di distanza, L'addio, ero piena di Grandi Speranze.
Sin dalle prime pagine ho riconosciuto il suo stile secco  e lenitivo  e mi sono entusiasmata. Con il procedere l'entusiasmo però è calato.
La trama è a dir poco coinvolgente: uno sbirro morto, che faceva lo sbirro da vivo nella città dei vivi e continua a farlo da morto nella città dei morti, viene ingaggiato da un certo Lazlo per tornare nella città dei vivi e sterminare il male che sta dilagando e che uccide tutti i bambini in modo atroce. Uno di questi bambini morti lo accompagna nel suo viaggio, per aiutarlo a scovare chi lo ha trucidato.
Ovviamente questo NON è un romanzo poliziesco. Moresco ce lo dice subito, nella prefazione, dove dichiara il suo intento scrivendo questo suo (ultimo?) romanzo. Il tema è molto più grande. Moresco si interroga e ci interroga sulle radici del male, sulla vita e sulla morte, si chiede e ci chiede cosa venga prima e cosa dopo, si interroga sull'amore e ce lo porge come l'unico tocco di colore in tutto il libro.
Assistiamo a tre giorni di sangue, atrocità, facciamo la conoscenza di uomini sadici e senza scrupoli, scendiamo le scale di scantinati, entriamo in aule di asili deserti, bussiamo alle porte di donne che urlano, cerchiamo bambini dentro container.
È la descrizione di un incubo senza soluzione di continuità. Lo stile è quello onirico e le scene sono sia reali che irreali, esattamente come accade dormendo. Questo è la sua peculiarità.
Per gran parte del romanzo continuavo a pensare: perché ci ripete tutto in modo così angosciante?  Perché sempre le stesse domande? Troveranno una soluzione, questi interrogativi? Ovvio che conoscevo già la risposta. Non puoi chiederti Chi sono? , Cos'è la vita e cos'è la morte? o Perché sono qui e ho fatto questo? e sperare di trovare una risposta.
Il tempo e la vita ce li descrive in modo circolare. Tutto è prima e tutto è dopo, perché in realtà non esiste un prima o un dopo, non esiste la morte senza la vita, non esiste il bene senza il male.
Non nego di aver fatto una gran fatica a leggere. A cercare di capire le milioni di metafore con cui inonda il libro. E no, non le ho certo capite tutte. Forse ho solo finto di capire, per trovare una logica in un luogo, questo creato da Moresco, dove la logica non può esistere.  Le infinite e ripetute domande che lo sbirro morto si fa, e non solo lui, ma anche gli altri personaggi, sul significato della vita non trovano risposta. Anche se Moresco vuole farci capire che il finale sia in un certo modo risolutivo, che lo sbirro capisca, Perché adesso so che, dichiara nell'ultima pagina.
Quello di cui sono sicura è che il compito della letteratura è esattamente questo, però: crearci domande, darci una prospettiva diversa della vita, spostare i mobili in quella casa che è il nostro cervello. E Moresco lo fa. Non sono convinta che ci sia solo la critica sociale, tra le pagine. C'è anche la voglia di capire, e farci capire. Ed è questa la forza più grande di Moresco. Non darsi per vinto, esattamente come il protagonista.
Un libro complicato, pesante, dove non è lo stile che colpisce, ma quello che sta dietro, dove lo stile asseconda, non è protagonista.
Un libro da leggere.









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