Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

lunedì 16 dicembre 2013

Capolavoro? Non direi...

Ed ecco che alla fine mi ritrovo con due puntate quasi integrali di Masterpiece e un groppo in gola che avevo giurato avrei tenuto per me e invece non ce la faccio, è più forte di me: lo sputo.
Non posso fare a meno di dire: «No». E intendo un No a tutto. Dalle piccolezze, come l’orario di messa in onda, fino all'assenza dei manoscritti sul sito, come invece una strana striscia passata durante la trasmissione sosteneva. Insomma: qui c’è gente che scrive, ce la possiamo fare un’opinione pure noi?  
Ma il punto, in realtà, non è il format. Quello è studiato giustamente per un pubblico televisivo. Il problema è che dietro al format ci sono delle persone, persone che aiutano a costruirlo. E la domanda è questa: in una cultura in cui l’immagine prevale sulla parola scritta da sessant'anni ormai, se tu per campare o per vocazione fai lo scrittore o vuoi fare lo scrittore per campare o per vocazione, come ti viene in mente di contribuire alla trasformazione della scrittura in una serie banale e commerciale di immagini?
La cosa buffa –leggi: inquietante- che ho trovato, è la facilità con cui puoi soprannominare gli aspiranti scrittori riducendoli ai loro difetti, malattie, pregi etc. Esempio: nella prima puntata potrei parlare per aggettivi: il Galeotto, l’Anoressica, il Vergine. Della terza potrei dire: il Presuntuoso, il Comico e via dicendo. Questo mi fa pensare che gli aspiranti scrittori possano ridursi essi stessi a dei personaggi. Ma a dei personaggi caratterizzati in modo sommario, a degli stereotipi –tipici dei personaggi televisivi, perché ben riconoscibili.
Ma un personaggio della narrativa, un personaggio costruito bene, rispecchia la complessità umana. Dopotutto, diceva Gardner, il personaggio è l’anima stessa della narrativa.
Quindi, ricapitolando: la tendenza che vedo in questo programma, ma già teorizzata qui e là, è che lo scrittore, alla fine diventa un personaggio più importante, sebbene stereotipato, dei suoi stessi personaggi. Ed è una cosa buffa. Ma che dico, terribile. Troppo drammatica? Tutto questo fa un po’ Apocalisse letteraria? Forse esagero.
In ogni caso mi fa riflettere. Mi chiedo, sprofondata nel mio divano, se non farei meglio a seguire i primi timidi consigli che mi sono stati dati e smettere di scrivere per darmi all'ippica. Perché, infatti, sprecare tempo ed energie a imparare qualcosa che tendenzialmente va in una direzione che so perfettamente che non riuscirò mai a prendere?
Il divano mi ingoia e io sempre lì a pensare. Perché finire la grafite sul foglio bianco? Non farei meglio a buttare la sigaretta nel camino e andarmene a letto?
Ed è proprio il divano che mi aiuta a rispondere: lo guardo e penso che è davvero fuori moda e cozza con quasi tutto quello che lo circonda. Ma ha un pregio impagabile: è confortevole. Che non la stessa cosa di comodo. È confortevole. E se continuo a mentire a me stessa, dicendo che non lo butto perché mia figlia è ancora piccola ma poi certo lo farò lo farò, è perché so cosa può darmi.
E lo stesso vale per la scrittura. In una notte buia e senza stelle, il conforto della matita sul foglio, del ticchettio dei tasti nel mio ufficio, del foglio che si popola di caratteri, è lo stesso che mi dà il mio divano dopo una giornata di lavoro.
Zadie Smith ha scritto:
“Ciò che unisce i grandi romanzi tra loro è il modo tutto personale in cui articolano l’esperienza e ci costringono all'attenzione ridestandoci dal sonnambulismo della nostra vita” e ancora: “Per quanto mi riguarda, io scrivo proprio per non vivere tutta la mia vita come una sonnambula”. Credo che nulla mai soppianterà questa bellissima idea di fondo della letteratura, alla fine. Ci sarà sempre qualcuno che ci crederà.

Reality show a parte.

venerdì 6 dicembre 2013

L'altra faccia di Coelho

Singolare uomo, Coelho. Mi ero fatta un giudizio su di lui leggendo i suoi libri, definendolo come un uomo pacato, dedito alla meditazione, magari praticata sul divano bianco del suo salotto che si affaccia sul mare. Non so da dove arrivino queste immagini. Probabilmente sono una somma di cliché.
Il fatto è che mi sono invece imbattuta per caso nella sua biografia. E ho scoperto cose interessanti. Ho scoperto l’altra faccia di Coelho.
Nato a Rio de Janeiro nel 1947 da una famiglia borghese, sin da subito rivelò un carattere avverso alle regole e propenso, invece, alle arti. Frequentò la scuola gesuita santo Ignacio, dove si scontrò con la durissima disciplina imposta. Il padre lo avrebbe visto bene come avvocato, ma non aveva fatto i conti con un figlio ribelle che, ben presto, entrò in contatto con una compagnia teatrale (al tempo il teatro era visto, da famiglie come quella di Paulo, un’attività immorale). Convinto di rimetterlo sulla retta via, decise di internarlo in un manicomio. Ma, dopo altri due internamenti e qualche seduta di elettrochoc, il ragazzo non si raddrizzò affatto: provò ogni tipo di droga, si dedicò scrupolosamente al sesso, sia con le donne che con gli uomini –una sua amica di New York affermò “Sono stata con tanti ragazzi, ma tu… wow! Tu sei il primo ad avere il cazzo quadrato!”-, provò come giornalista fu attivo politicamente come marxista (allora in Brasile regnava il regime militare di Artur da Costa e Silva) e, infine incontrò il cantante ribelle – e un po’ poeta- Raul Seixas.
Sulla vera o presunta amicizia tra i due c’è ancora qualche velo da scoprire, ma il dato di fatto inequivocabile è che collaborano a un progetto di svolta del rock brasiliano, incidendo diversi album di successo. E, soprattutto, fondarono la “Società alternativa”, un’organizzazione filosofico - politicizzata che  difendeva la libertà individuale, andava contro al capitalismo e praticava magia nera.
La Società si ispirava all’occultista Aleister Crowley (apparso, tra l’altro, nella famosa e controversa copertina di Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles), il cui credo religioso era quello di Thelema, a cui si deve la fondazione confraternita O.T.O. e la redazione del suo libro sacro, Liber AL vel Legis, dove “ la Parola della legge è Thelema” e si proclama allegramente “Fa ciò che vuoi, e sarà tutta la Legge”.
Sembra che il giovane Paulo fosse proprio uno studente modello e studiò la Legge di Thelema con devozione, dichiarando che avrebbe certo aiutato la confraternita a diffondere i loro ideali e le loro idee.
E così fece: lui e Raul fecero uscire il “manifesto de Khing-hà”,  dichiarando che “la Società alternativa proseguirà il suo viaggio verso la costruzione di basi sociali votate alla civiltà Thelemaica”. Quindi in nome della libertà individuale… Il regime militare non gliela fece passare liscia. Cinque giorni più tardi vennero entrambi arrestati, insieme ad altri sovversivi, e rinchiusi in carcere.  Etichettato come “capo sovversivo”, fu tenuto in cella più a lungo del suo amico Raul e degli altri e, appena uscito, fu catturato per la strada e portato in un centro di tortura militare per vari giorni. Questa fu la svolta.
Da quel momento le notizie su Coelho si fanno più tradizionali: nel 1980 si sposa, poi inizia a pubblicare i suoi libri, esordendo nel 1987 con “Diario di un mago”.

Questo strano percorso mi fa alla fine comprendere da dove arriva quella che io ho sempre definito come filosofia spicciola, di cui i libri di Coelho sono intrisi. E sebbene resti ancora dell’opinione di Franzen in proposito -la buona narrativa è quella che si rifiuta di fornire facili soluzioni al conflitto, di dipingere le cose come bianche o nere, come buoni contro cattivi. Esattamente l'opposto della psicologia spicciola- , almeno adesso so che frasi come “il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni” o “il vero io è quello che sei tu, non quello che hanno fatto di te”, hanno una certa ragion d’essere tra le mani di Coelho. O perlomeno parla per esperienza personale.

                                              

venerdì 29 novembre 2013

The importance of being word

Pochi giorni fa mi è tornata in mente una buffa signora che teneva in un caffè un corso di scrittura creativa a cui ho assistito, almeno per una lezione. La signora, sulla cinquantina, capelli corti, un aspetto quasi buddista, ci dette un paio di dritte: la prima era “Non si rilegge”; la seconda “Non si cancellano le parole mentre si scrive”. Suggeriva al limite di metterle tra parentesi. Vedeva il cancellarle come un atto di violenza e insisteva sul loro diritto di esistere sulla pagina, probabilmente per premiarle del viaggio –non sempre facile, lo ammetto- dal cervello fino alla mano. Una visione un po’ sentimentale delle parole.
Un percorso simile lo consiglia anche il libro “Scrivere zen”, dove la Goldberg raccomanda una sorta di scrittura automatica per arrivare dritti al nostro lato spirituale e riversarlo sulla pagina. Della serie: in tanto materiale, qualcosa di buono ci sarà…
Personalmente mi ritengo un po’ più di stampo carveriano per la precisione del lessico e condivido in pieno la sua affermazione più famosa: “le parole sono tutto quello che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste”.
E non poteva affermare altrimenti, dato che aveva avuto come maestro John Gardner, un uomo che predicava che esiste un’enorme differenza scrivendo suolo piuttosto che terra e che scriveva: “mettere giù le cose in modo esatto è tutto ciò che si intende per precisione dell’occhio dello scrittore”.
La precisione, quindi, prima di tutto. Il lavoro di riscrittura come assioma fondamentale, affinché la parola sia quella giusta –Carver revisionava i suoi racconti anche trenta volte, amava pasticciarci, come lui stesso diceva; lo stesso vale per i romanzi di Fitzgerald, dove i pezzi erano “rivisti e mediati da tre a sei volte”; ma anche per Flannery O’Connor e Hemingway e Wallace e altri milioni di scrittori.
Certo. Questa precisione non è affatto facile, proprio perché le parole sono un mezzo umano limitato. Virginia Woolf scriveva che “le parole non vivono nei dizionari, vivono nella mente”,dove “vagano qua e là, innamorandosi e accoppiandosi”. Un’immagine molto bella. Che rende perfettamente l’idea di quanto sia difficile accalappiare certe immagini e trasformarle in bianco e nero sul foglio. Le parole immiseriscono le cose più importanti, come dice Stephen King, “rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra mente sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori”. Riassume molto bene Walter Benjamin: “L’opera è la maschera mortuaria dell’idea”.
Sembra quindi che  il nostro rapporto con le parole sia un rapporto difficile a prescindere. Non riusciremo mai ad avere con loro un’unione felice, piuttosto saremo condannati ad esserne schiavi e ingabbiati. E non solo scrivendo, ma anche –e soprattutto- parlando. Nei dialoghi quotidiani, infatti, non è possibile tornare indietro, cancellare. E nemmeno mettere tra parentesi. Uno scenario terrificante, se ci mettiamo a pensarlo.
Per me la soluzione è una sola. E me la dà, di nuovo, Carver:
“ Se non si riesce, dico io, a rendere quello che si scrive al meglio delle nostre possibilità, allora che si scrive a fare?[…] Cerca di farlo meglio che puoi, mettici dentro tutto il tuo talento, ma poi non ti giustificare, non cercare scuse. Risparmiaci i lamenti e le spiegazioni”.
Giusto. Mi piace pensarlo in generale, come assioma di una vita: fare tutto al meglio delle nostre possibilità.

Altrimenti, che senso ha?


                                           

giovedì 21 novembre 2013

Questa è l'acqua, David Foster Wallace


Wallace.
Un uomo che molti, prima ma anche dopo la sua morte, hanno divinizzato. Solo leggendolo si può capire perché.
Aggettivi per Wallace:

irriverente
sarcastico
polemico
grande
immortale
importante

…l’elenco potrebbe continuare per ore.
E nessuno sarebbe per intero Wallace e tutti sarebbero Wallace intero.
Personalmente amo le sperimentazioni linguistiche e quelle narrative. Anche se quello che cerco in un racconto, alla fine, è l’emozione. Emozionarmi per me è il vero leggere, che non significa affatto piangere. Ma mettere in moto qualcosa nel mio cervello. Far sì che il libro sposti i “mobili della mia casa”, come ha sentito dire da Bajani, che  mi faccia venire il dubbio che ci sono mobili, nel mio cervello, che si possono spostare, anche se inizialmente la cosa ti lascia straniato.
Wallace lo fa.
Questo libro è una raccolta postuma di inediti, dove confluisce anche la trascrizione del discorso tenuto da W. al Kenyon College nel 2005 e che dà il titolo alla raccolta. Le maturità di ogni testo sono differenti, dunque. Si parte da racconti scritti nel 1984 –tra cui la sua prima opera pubblicata, Il pianeta Trillafon e la Cosa Brutta- fino a racconti più recenti e più simili alla sua opera più famosa, Infinite Jest. Nella postfazione si spiega la logica con cui sono stati messi insieme. Io la trovo una raccolta eterogenea, un po’ come lo stile di Wallace in generale, dove un più sarcastico e sperimentalista Wallace si affianca a un più giovane ed emozionante Wallace. E va da sé che io preferisca questo ultimo.
Ci sono racconti che ammiro solo perché sorprendenti, irriverenti e perché mi ispirano a sperimentare –cosa buona e giusta. Un po’ come Barthelme, rompe gli schemi mentali tradizionali. Ti libera. Ma Wallace ci aggiunge anche un buffetto sulla guancia, ogni tanto. E una defibrillazione cardiaca. Rende la lettura un’avventura, ma non  trasportandoci, come un Salgari o un London. Semplicemente mettendo una parola dietro un’altra. Accendendo quel pulsante che -ricorda Murakami- si trova sul pannello della coscienza. ON.
Crollo del ’69 è un racconto terribilmente sarcastico, ma che adoro per via di questa cosa che fa, di questo suo scrivere il dialogo tra pensieri. Salta da una testa all’altra dei suoi personaggi, cambiandone il linguaggio, adattandolo: bravissimo.
Ordine e fluttuazione a Northampton ti fa spalancare gli occhi del cervello, ti conduce velocemente verso stradine intricate. Da cui io non sono uscita.
Stesso discorso per Altra matematica. Problema di orientamento mio, si vede.
Ma.
Ma c’è Salomon Silverfish. Un mix intricato di humour e profondità mostruosa. Lancinante, in alcuni punti. Terribilmente romantico –ma MAI MAI sdolcinato- nel dialogo di Sophie, la moglie in fin di vita del controverso Solomon, personaggio tutt’altro che positivo:
È mio marito e io e lui siamo uniti da una cosa chiamata amore che, casomai non l’aveste ancora sentita nominare, non è solo un sentimento, è un modo di vivere la vita con una persona, e la vostra Sophie malata è fatta di questo amore, di questa vita e di questo Silverfish, e la mia vita è la sua e tutt’e due siamo quello che siamo grazie all’altro”.   

E lo splendido Il pianeta Trillafon e la Cosa Brutta. Incredibile come possa raccontare la depressione con dovizia di particolari senza mai scendere nel banale o nel patetico. Una cosa da vero supereroe.
Non so davvero se la Cosa Brutta sia davvero depressione” scrive. Continua poi: “Uno della televisione con lo scilinguagnolo ha detto che secondo certi è come sott’acqua, sotto una massa d’acqua che non ha superficie, almeno per te, che qualunque direzione prendi trovi soltanto altra acqua, niente aria fresca, né libertà di movimento, solo restrizioni e soffocamento, e niente luce. ( Non so quanto sia azzeccato dire che è come essere sott’acqua, ma provate a immaginare il momento in cui vi rendete conto, in cui improvvisamente  capite che per voi non c’è superficie, che potete nuotare finchè vi pare, tanto lì dentro ci affogate […]
 Ultimo pezzo è, come ho detto, la trascrizione del discorso per i laureandi. Che potete trovare integralmente qui:

De Lillo, nella breve prefazione, scrive: “C’è sempre un lettore di più a rigenerare quelle parole. Le parole non smetteranno di pervenirci”. Così come Manguel scrisse: “Ogni lettore esiste per assicurare a un certo libro una piccola immortalità. La lettura è, in tal senso, un rito di rinascita”.

Mi piace vederla così.

Ma senza troppi sentimentalismi.

                                             

mercoledì 20 novembre 2013

Non abitiamo più qui, Andre Dubus

Sebbene non abbia trovato eccellente lo stile di Dubus- anzi, per certi versi ho visto le sue cadute come piccole trappole in cui avrei potuto cadere io stessa- non posso che parlar bene di questi tre racconti dello scrittore di short stories più acclamato dai suoi contemporanei, anche se non il più famoso, forse: Andre Dubus.
Lo stile prende le mosse dal suo amico e maestro Yeats in primo luogo, ma il maestro a cui si ispira è senza dubbio Checov, ripetutamente citato all’interno della raccolta e preso, secondo stesso figlio di Dubus, AndreIII, come mentore.
A Dubus interessava la libertà dello scrivere più che il tornaconto economico e questa è la cosa che più risulta chiara leggendo questo libro. Non c’è menzogna, ma solo una lunga  e profonda ispezione dell’animo umano, un continuo scavare e tentar di comprendere -senza peraltro arrivare a conclusioni moraliste- le dinamiche che legano e slegano i rapporti d’amore, che siano essi iscritti all’interno del matrimonio o al di fuori di esso.
I tre racconti ripercorrono la storia di due giovani coppie legate tra loro da amicizia e tradimenti. Quello che ho trovato stupefacente è la delicatezza con cui descrive le donne. T. Wolff, suo amico e collega, scrive nella postfazione che durante un festival della letteratura Dubus rischiò di impantanarsi in un discorso sul movimento femminista, dichiarando che l’unica cosa che era riuscito a creare era che adesso le donne potevano “indossare vestiti da uomini, prendere il treno per andare  a lavorare e dire bugie tutto il giorno”. Un’affermazione quantomeno pericolosa se non fosse per il fatto che Dubus trovava -e questo si legge in modo chiaro- le donne esseri dotati di “personalità migliori o perlomeno più interessanti degli uomini”, proprio perché non guastate dal continuo desiderio di potere, prerogativa da sempre del mondo maschile.
Consiglio di non tralasciare, se vi trovate questo libro tra le mani -e dovreste, almeno una volta nella vita- sia la prefazione (di N. Manupelli) che la postfazione  (di T. Wolff, per l’appunto).
Credo che questo libro mi abbia aiutato, indubbiamente senza volerlo, a raggiungere la consapevolezza di quello che amo leggere, ovvero il lento lavoro archeologico da parte di uno scrittore di ciò che sta dietro all’atto stesso del vivere.

Perché di storie fantastiche e favolose ne possiamo inventare a migliaia, ma per me non c’è niente che eguagli la meraviglia che provo di fronte alla vita stessa.

                                                          Non abitiamo più qui


domenica 10 novembre 2013

Ho paura torero, Lemebel Pedro

Siamo a Santiago del Cile nella primavera del  1986. La città è sotto la dittatura di Pinochet, che i suoi seguaci chiamano governo militare. Sotto l'apparente calma, ribolle il Fronte patriottico di Manuel Rodrìguez, che lo stesso dittatore definisce “omuncoli, bambini viziati che recitano poesie d'amore e mitragliatrice”. Qui la Fata dell'angolo, un travestito passionale e amante del canto, eccellente ricamatore per le mogli dei generali del governo, si innamora perdutamente del giovane rivoluzionario Carlos, in cerca di un rifugio sicuro per le sue riunioni clandestine. E quale miglior rifugio della soffitta della casa della Fata, innegabilmente la meno sospetta? Per amore lei farà finta di non sapere, qualunque cosa pur di stagli accanto. Dall'altra parte c'è la voce dello stesso dittatore, ma specialmente quella dell'instancabile moglie, a fare da controcanto alla storia, evidenziando i punti di vista opposti e rendendo il libro una satira godibile.

Questo libro è una piccola opera teatrale, in linea con la passione di Lemebel. Il sipario si alza a casa della fatina, che si descrive come farebbe Lemebel stesso, in modo audace e ironico, da checca incallita. Il linguaggio è barocco, molto vivace, alcune volte sfiora l'osceno e in alcuni punti l'ho trovato vischioso, difficile da seguire, seppur in se stesso poetico. Potrei descriverlo come una danza sconosciuta che fatichi a seguire, ma se poi riesci a prenderci il ritmo diventa favolosa e dolcissima. La voce che ho preferito è indubbiamente quella della fatina che, come ho detto, si alterna a quella della moglie di Pinochet -queste parti le ho trovate un po' troppo forzatamente ironiche-, anche se devo ammettere che la scena del compleanno di Carlos –l’amante rivoluzionario-, una scena tenera e romantica, un punto di svolta per il libro in un certo senso, viene contrapposta in modo eccellente a quella del compleanno di Augusto a dieci anni -il dittatore.
L'amore si mescola alla rivolta, come un boa di struzzo colorato in mezzo alle macerie di Santiago. L'amore riduce la Fata “in fin di vita, come una carta velina impregnata dall'umidità del suo alito”. È l'amore consapevole della sua impossibilità, così struggente, a volte, da commuovere che trova nel finale l'unica soluzione degna di esistere.
Il viaggio della Fata e di Carlos in questo libro sono contrapposti: vanno l'uno nella direzione dell'altra senza però mai riuscire a toccarsi.
Ho amato molte espressioni utilizzate da Lemebel e le descrizioni sono quasi sempre sopraffine, ma si sente un po' di forzatura a tratti che personalmente non ho gradito.
Lo scambio finale tra Carlos e la sua improbabile amante è delicato e una delle parti migliori di tutto il libro. Poi il sipario si chiude, si accendono le luci e Lemebel ti riporta alla realtà, lasciandoci l'amaro in bocca leggendo le parole di Carlos:
“La mia fata, pensò. La mia fata inevitabile, la mia fata indimenticabile. La mia fata impossibile, dichiarò a voce bassa osservando il profilo esaltato dal verde azzurro di un riflesso dell'alta marea”.

Decisamente un libro che merita di essere letto.
                                                   


                                                    Diritti_Ritorno_Copertina

giovedì 31 ottobre 2013

Festival Arca Puccini, Pistoia. "Questa è l'acqua", David Foster Wallace: intervista a D.T.Max

Casa della Piazzetta, Pistoia, ore 21.00.
Siamo i primi ad arrivare. I ragazzi stanno facendo le prove di collegamento Skype con New York. Ci accomodiamo un po’ titubanti. La saletta è intima, sembra il salotto di casa: un pianoforte a muro, una poltrona, cuscini rossi per terra. ci sediamo sulle panche in attesa, osservando il buco nero sullo schermo.
Probabilmente questa situazione intima –ma il termine che per primo mi viene in mente è friendly- sarebbe piaciuta a uno come Wallace. Perché è di lui che si parla stasera. Del “vero” Wallace. O almeno ci provano il suo biografo, D.T. Max – un’incredibile copia di Nicolas Cage-, e la sua traduttrice in Italia -e direttore editoriale della Minimum fax-, Martina Testa.
L’intervista  inizia da qui: perché una biografia? La domanda è solo apparentemente banale. Le biografie di solito non piacciono agli scrittori che ne sono protagonisti: la cronologia della vita appiattisce la persona, la riduce a un “ha fatto questo, poi quello…”, tendendo a spiegare le sue opere attraverso le sue gesta. Va da sé che per un artista –e Wallace senza dubbio lo era- tutto questo appare un po’ riduttivo.
In realtà quello che Daniel Max ha cercato di fare è stato proprio l’opposto. Ridimensionarlo, Wallace, come probabilmente lui stesso avrebbe voluto.
D. T. Max parla di un rapporto teso con i propri lettori, del timore di lasciare che confondano la sua opera con la sua persona. Parla di un rapporto inversamente proporzionale: tanto più cresceva il suo successo, tanto più lui si allontanava dal suo pubblico. Voleva relazionarsi con i suoi lettori SOLO attraverso i suoi libri. Una cosa logica, per uno scrittore. Dato che la scelta di usare le parole su carta spesso non è davvero una scelta, ma una necessità.
Precisa però che non era affatto reticente alle relazioni umane, piuttosto  a stare davanti a un pubblico e a partecipare all'ambiente letterario.  Era semplicemente  poco artificioso, al contrario di quello che potrebbe sembrare attraverso le sue opere.
Il risultato è quindi una figura complessa, certo.  Ma, precisa il suo biografo, quello che contava era dire la VERITA’ sul suo conto. Scoprire il suo lato umano. Ridimensionare il piedistallo. Perché dopotutto è così facile mitizzare un artista non convenzionale, morto suicida –la lista sarebbe qui infinita: da Curt Cobain a Merilyn Monroe, da Hemingway a quella ancor più spettacolare di Mishima.
Molte sono le note interessanti venute fuori da questa intervista. Come l' attenzione alle parole, il senso del dovere nei confronti del testo, a cui sottoponeva molte revisioni, la predilezione verbale per la fiction e lo snobbare –volutamente- la propria non-fiction. La sofferenza infine che lo porta al suicidio. D.T.Max ha parlato molto e con il sorriso sulle labbra mentre Martina Testa scriveva e traduceva per noi – per tutta la sera non ho fatto altro che chiedermi in che lingua stesse scrivendo su quei fogli.
Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi” è il titolo della biografia. E di fantasmi però non sembra raccontare. Forse in quella saletta intima non c’era posto per loro, ma solo per i grandi sorrisi di chi, anche se per poco, ha incrociato la propria vita con quella di un grande scrittore come Wallace.
Me ne vado anche io con il sorriso sulle labbra e un suo libro sotto il braccio: “Questa è l’acqua”, ovvio.
Cosa sapevo di Wallace prima di questo piccolo e caldo incontro? Beh, quasi nulla. Avevo alle spalle solo una raccolta di racconti, “La ragazza dai capelli strani” e qualche intervista letta qui e là.
E ora? La sensazione che mi ha lasciato si riassume in poche righe, dello stesso Wallace, tratte da “Interviste a uomini schifosi”.
Non si sa mai, in fondo… o invece no.


 Quando vennero presentati, lui fece una battuta, sperando di piacere. Lei rise a crepapelle, sperando di piacere. Poi se ne tornarono a casa in macchina, ognuno per conto suo, lo sguardo fisso davanti a sé, la stessa identica smorfia sul viso. A quello che li aveva presentati nessuno dei due piaceva troppo, anche se faceva finta di sì, visto che ci teneva tanto a mantenere sempre buoni rapporti con tutti. Sai, non si sa mai, in fondo, o invece sì, o invece sì”.


domenica 20 ottobre 2013

Scogliera, Olivier Adam

Da dove nasca un romanzo, se dalla realtà o dalla finzione, ai fini del romanzo stesso poco importa. Se il romanzo funziona, funziona. E viceversa. Quindi non è la componente autobiografica di Scogliera che prenderò in considerazione, adesso che mi accingo a scrivere una di quelle che io mi ostino a chiamare recensioni. Perché nel mio concetto di narrativa non è mai quello che accade, ma come è stato scritto. Va detto che seguo una scuola molto precisa.
Questo di Olivier Adam è un romanzo che potrei giudicare per punti a favore e punti a sfavore, una cosa che generalmente non faccio. Ma qui mi sembra necessario, perché, se da una parte mi ha deluso, dall'altra invece mi ha coinvolto, come in precedenza hanno fatto i suoi racconti.
Procedere come se scrivessi un catalogo non è poi molto bello, ma in questo caso non è una scelta del tutto casuale.
Inizio con i punti a sfavore.
1.          La disperazione, la morte, la sofferenza sono troppo presenti. Bagnano ogni foglio, rendendolo pesante perfino da girare. In centocinquanta pagine si suicidano tre persone care al protagonista. La madre –il suo suicidio darà inizio alle inevitabili conseguenze disastrose della sua vita-, uno dei migliori amici di suo fratello Antoine, Nicolas, e infine Lèa, una delle donne di cui si innamora. Tutti gli altri protagonisti annegano nell'alcool, vengono consumati da tumori nel silenzio e nella solitudine, rischiano di morire di anoressia. Solo per citarne alcuni. Ora, io non sono affatto per il lieto fine e l’allegria forzata, amo Carver e le sue short stories depressive, ma qui la concentrazione di fantasmi –ciò che realmente sono nel romanzo- è forse eccessiva  e appare un filino forzata. È una lunga lista di lapidi. Molto lunga per un ragazzo di trentuno anni. Anche la realtà –se di realtà si tratta- risulta troppo pesante se concentrata in centocinquanta pagine.
2.          Alcuni personaggi secondari sono costruiti secondo cliché fin troppo evidenti, come Nicholas o Lorette.
3.          La morte di Lèa è un trucchetto che Carver definirebbe da quattro soldi. Nomina la sua morte sin dai primi capitoli e poi ce la ripropone spesso, senza accennare ad altro se non al nome. È solo negli ultimi capitoli che ci dice chi è e cosa è successo. Cerca quindi di creare questo tipo di tensione per incollare il lettore alle pagine spingendolo a chiedersi: chi è Lèa? Come sarà morta? Ma poi si gioca tutto in poche pagine. Non ce ne spiega fino in fondo l’importanza, se ce ne è una. Il trucco del mago è svelato, si vede lo specchio e la magia…beh, non è più magia. Peccato.
4.          Usa in quasi tutti i capitoli degli elenchi infiniti. In particolare, il capitolo su Lorette è quasi un album fotografico: uno scatto dietro l’altro. La cosa a me piace, beninteso, ma andrebbe centellinata, mentre lui se ne approfitta, spezzando la prosa fin troppe volte, rendendola una di quelle danze robotiche che andavano tanto negli anni ottanta. Stona con la sua particolare voce malinconica, che avrebbe bisogno di più descrizioni, di una prosa più rilassata e di meno...elenchi.

Dall'altra parte dello specchio giocano le stelline e i pollici alzati.
1.        A tratti usa delle belle immagini. E le descrizioni del mare, delle scogliere, della moglie e della figlia che giacciono addormentate l’una accanto all’altra, sono dolci, calde, sincere. Ci sono frasi che mi hanno colpito, come ad esempio “il sole che gli morde la guancia” mentre dorme in auto o la figura della nonna che “affiora e si stende su tutto come un balsamo”. Solo per scriverne alcune.
2.        I sentimenti per Claire –moglie- e per Chloè –figlia- sono belli, puri, onesti, senza troppi sentimentalismi. Le rende reali e vivide, sebbene stiano dietro il palco per tutto il tempo.
3.        La sua voce mi piace. Mi piace molto. È come se la sentissi profonda e stanca, ma capace di raccontarti ancora mille storie prima di dormire. È una voce che è un abbraccio. Ed è una voce che vorresti abbracciare.
4.        La trama in sé, l’idea di ripercorrere l’ infanzia e l’adolescenza attraverso i suoi fantasmi, che talvolta vede davvero come quello della madre, è molto buona. Un romanzo-ricordo, che si spalma sul presente e influenza il futuro. Una domanda che nasce dal profondo –come ho fatto a sopravvivere?, come ho fatto a rimarne sempre in equilibrio e non cadere tanto da uccidermi?
L’ultimo capitolo è molto appassionato e, anche grazie all'anafora, fa chiudere le pagine con un certo dispiacere.

Mi resta in bocca un sensazione strana, indefinita. Come qualcosa di gustoso che è stato mal cucinato.
Posso sempre attendere di leggere gli altri suoi romanzi. E vediamo stavolta come va…

                                          Scogliera



venerdì 18 ottobre 2013

Biancaneve, Donald Barthelme

La trama è quello che vi aspettereste: una Biancaneve moderna che vive con sette uomini e aspetta il Principe Azzurro. Ma con Biancaneve dei fratelli Grimm ha solo questo in comune.
Chi ha scritto Donald Barthelme “scompone la fiaba tradizionale in mille pezzi e li infila tutti nel frullatore” non poteva scrivere meglio. E ancora. Condivido il pensiero di chi ha detto della scrittura di Barthelme:  incategorizzabile. Aggiungo: imparagonabile.
Il romanzo- ma anche chiamarlo così è una libertà- va avanti con dei veri e propri frammenti, di cui lo stesso scrittore dice siano l'unica forma di cui si fida, raccontati da una “pluralità individuale”, cioè i sette uomini che dividono la casa -e non solo- con Biancaneve.
Assurdo è il primo aggettivo che ho trovato. Non surreale, assurdo.
Eppure.
Sebbene uscito nel '67 non ho letto nulla di più attuale. Non era uno scrittore del suo tempo. Decisamente camminava avanti a tutti. Il linguaggio è completamente sconvolto- il presunto Principe vuole una donna che abbisogni ai suoi servigi, Biancaneve è soffusa di vergogna, ci sono termini come perfettibile e pertinicia sparsi ovunque-. Spesso è spaventosamente trash e divertente, ironico e autoironico, ma allo stesso tempo colpisce. E affonda. In maniera spaventosamente seria.
Ha influenzato scrittori come Egger e Wallace e Bender, Carver lo definisce “il nostro eroe”, nella prefazione Ivano Bariani afferma che “ha tirato giù a calci la porta d'ingresso a nuovi universi narrativi”... andrebbe letto solo per questo. Ma non solo.
Alla domanda “Ti è piaciuto?” non ho risposta. Quello che so è che leggerlo ha scomposto la mia mente in mille pezzi e li ha infilati nel frullatore. Una vera esperienza. Un'esperienza che non posso che consigliare.
L'unica avvertenza: non avvicinarsi con l’idea che sia semplice apprezzarlo.