Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

lunedì 16 dicembre 2013

Capolavoro? Non direi...

Ed ecco che alla fine mi ritrovo con due puntate quasi integrali di Masterpiece e un groppo in gola che avevo giurato avrei tenuto per me e invece non ce la faccio, è più forte di me: lo sputo.
Non posso fare a meno di dire: «No». E intendo un No a tutto. Dalle piccolezze, come l’orario di messa in onda, fino all'assenza dei manoscritti sul sito, come invece una strana striscia passata durante la trasmissione sosteneva. Insomma: qui c’è gente che scrive, ce la possiamo fare un’opinione pure noi?  
Ma il punto, in realtà, non è il format. Quello è studiato giustamente per un pubblico televisivo. Il problema è che dietro al format ci sono delle persone, persone che aiutano a costruirlo. E la domanda è questa: in una cultura in cui l’immagine prevale sulla parola scritta da sessant'anni ormai, se tu per campare o per vocazione fai lo scrittore o vuoi fare lo scrittore per campare o per vocazione, come ti viene in mente di contribuire alla trasformazione della scrittura in una serie banale e commerciale di immagini?
La cosa buffa –leggi: inquietante- che ho trovato, è la facilità con cui puoi soprannominare gli aspiranti scrittori riducendoli ai loro difetti, malattie, pregi etc. Esempio: nella prima puntata potrei parlare per aggettivi: il Galeotto, l’Anoressica, il Vergine. Della terza potrei dire: il Presuntuoso, il Comico e via dicendo. Questo mi fa pensare che gli aspiranti scrittori possano ridursi essi stessi a dei personaggi. Ma a dei personaggi caratterizzati in modo sommario, a degli stereotipi –tipici dei personaggi televisivi, perché ben riconoscibili.
Ma un personaggio della narrativa, un personaggio costruito bene, rispecchia la complessità umana. Dopotutto, diceva Gardner, il personaggio è l’anima stessa della narrativa.
Quindi, ricapitolando: la tendenza che vedo in questo programma, ma già teorizzata qui e là, è che lo scrittore, alla fine diventa un personaggio più importante, sebbene stereotipato, dei suoi stessi personaggi. Ed è una cosa buffa. Ma che dico, terribile. Troppo drammatica? Tutto questo fa un po’ Apocalisse letteraria? Forse esagero.
In ogni caso mi fa riflettere. Mi chiedo, sprofondata nel mio divano, se non farei meglio a seguire i primi timidi consigli che mi sono stati dati e smettere di scrivere per darmi all'ippica. Perché, infatti, sprecare tempo ed energie a imparare qualcosa che tendenzialmente va in una direzione che so perfettamente che non riuscirò mai a prendere?
Il divano mi ingoia e io sempre lì a pensare. Perché finire la grafite sul foglio bianco? Non farei meglio a buttare la sigaretta nel camino e andarmene a letto?
Ed è proprio il divano che mi aiuta a rispondere: lo guardo e penso che è davvero fuori moda e cozza con quasi tutto quello che lo circonda. Ma ha un pregio impagabile: è confortevole. Che non la stessa cosa di comodo. È confortevole. E se continuo a mentire a me stessa, dicendo che non lo butto perché mia figlia è ancora piccola ma poi certo lo farò lo farò, è perché so cosa può darmi.
E lo stesso vale per la scrittura. In una notte buia e senza stelle, il conforto della matita sul foglio, del ticchettio dei tasti nel mio ufficio, del foglio che si popola di caratteri, è lo stesso che mi dà il mio divano dopo una giornata di lavoro.
Zadie Smith ha scritto:
“Ciò che unisce i grandi romanzi tra loro è il modo tutto personale in cui articolano l’esperienza e ci costringono all'attenzione ridestandoci dal sonnambulismo della nostra vita” e ancora: “Per quanto mi riguarda, io scrivo proprio per non vivere tutta la mia vita come una sonnambula”. Credo che nulla mai soppianterà questa bellissima idea di fondo della letteratura, alla fine. Ci sarà sempre qualcuno che ci crederà.

Reality show a parte.

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