Ed ecco che
alla fine mi ritrovo con due puntate quasi integrali di Masterpiece e un groppo
in gola che avevo giurato avrei tenuto per me e invece non ce la faccio, è più
forte di me: lo sputo.
Non posso
fare a meno di dire: «No». E intendo un No a tutto. Dalle piccolezze, come
l’orario di messa in onda, fino all'assenza dei manoscritti sul sito, come invece
una strana striscia passata durante la trasmissione sosteneva. Insomma: qui c’è
gente che scrive, ce la possiamo fare un’opinione pure noi?
Ma il punto,
in realtà, non è il format. Quello è studiato giustamente per un pubblico
televisivo. Il problema è che dietro al format ci sono delle persone, persone
che aiutano a costruirlo. E la domanda è questa: in una cultura in cui
l’immagine prevale sulla parola scritta da sessant'anni ormai, se tu per campare o per vocazione fai lo scrittore o vuoi fare lo scrittore per campare o
per vocazione, come ti viene in mente di contribuire alla trasformazione della
scrittura in una serie banale e commerciale di immagini?
La cosa buffa
–leggi: inquietante- che ho trovato, è la facilità con cui puoi soprannominare
gli aspiranti scrittori riducendoli ai loro difetti, malattie, pregi etc.
Esempio: nella prima puntata potrei parlare per aggettivi: il Galeotto, l’Anoressica,
il Vergine. Della terza potrei dire: il Presuntuoso, il Comico e via dicendo.
Questo mi fa pensare che gli aspiranti scrittori possano ridursi essi stessi a
dei personaggi. Ma a dei personaggi caratterizzati in modo sommario, a degli
stereotipi –tipici dei personaggi televisivi, perché ben riconoscibili.
Ma un
personaggio della narrativa, un personaggio costruito bene, rispecchia la
complessità umana. Dopotutto, diceva Gardner, il personaggio è l’anima stessa
della narrativa.
Quindi,
ricapitolando: la tendenza che vedo in questo programma, ma già teorizzata qui
e là, è che lo scrittore, alla fine diventa un personaggio più importante,
sebbene stereotipato, dei suoi stessi personaggi. Ed è una cosa buffa. Ma che
dico, terribile. Troppo drammatica? Tutto questo fa un po’ Apocalisse letteraria?
Forse esagero.
In ogni caso
mi fa riflettere. Mi chiedo, sprofondata nel mio divano, se non farei meglio a
seguire i primi timidi consigli che mi sono stati dati e smettere di scrivere
per darmi all'ippica. Perché, infatti, sprecare tempo ed energie a imparare qualcosa
che tendenzialmente va in una
direzione che so perfettamente che non riuscirò mai a prendere?
Il divano mi
ingoia e io sempre lì a pensare. Perché finire la grafite sul foglio bianco?
Non farei meglio a buttare la sigaretta nel camino e andarmene a letto?
Ed è proprio
il divano che mi aiuta a rispondere: lo guardo e penso che è davvero fuori moda
e cozza con quasi tutto quello che lo circonda. Ma ha un pregio impagabile: è
confortevole. Che non la stessa cosa di comodo.
È confortevole. E se continuo a
mentire a me stessa, dicendo che non lo
butto perché mia figlia è ancora piccola ma poi certo lo farò lo farò, è
perché so cosa può darmi.
E lo stesso
vale per la scrittura. In una notte buia e senza stelle, il conforto della
matita sul foglio, del ticchettio dei tasti nel mio ufficio, del foglio che si
popola di caratteri, è lo stesso che mi dà il mio divano dopo una giornata di
lavoro.
Zadie Smith
ha scritto:
“Ciò che
unisce i grandi romanzi tra loro è il modo tutto personale in cui articolano
l’esperienza e ci costringono all'attenzione ridestandoci dal sonnambulismo
della nostra vita” e ancora: “Per quanto mi riguarda, io scrivo proprio per non
vivere tutta la mia vita come una sonnambula”. Credo che nulla mai soppianterà
questa bellissima idea di fondo della letteratura, alla fine. Ci sarà sempre
qualcuno che ci crederà.
Reality show
a parte.
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