Pochi giorni
fa mi è tornata in mente una buffa signora che teneva in un caffè un corso di
scrittura creativa a cui ho assistito, almeno per una lezione. La signora,
sulla cinquantina, capelli corti, un aspetto quasi buddista, ci dette un paio di
dritte: la prima era “Non si rilegge”; la seconda “Non si cancellano le parole
mentre si scrive”. Suggeriva al limite di metterle tra parentesi. Vedeva il
cancellarle come un atto di violenza e insisteva sul loro diritto di esistere sulla
pagina, probabilmente per premiarle del viaggio –non sempre facile, lo ammetto-
dal cervello fino alla mano. Una visione un po’ sentimentale delle parole.
Un percorso simile
lo consiglia anche il libro “Scrivere zen”, dove la Goldberg raccomanda una
sorta di scrittura automatica per arrivare dritti al nostro lato spirituale e
riversarlo sulla pagina. Della serie: in tanto materiale, qualcosa di buono ci
sarà…
Personalmente
mi ritengo un po’ più di stampo carveriano per la precisione del lessico e
condivido in pieno la sua affermazione più famosa: “le parole sono tutto quello
che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste”.
E non poteva
affermare altrimenti, dato che aveva avuto come maestro John Gardner, un uomo
che predicava che esiste un’enorme differenza scrivendo suolo piuttosto che terra
e che scriveva: “mettere giù le cose in modo esatto è tutto ciò che si intende
per precisione dell’occhio dello
scrittore”.
La
precisione, quindi, prima di tutto. Il lavoro di riscrittura come assioma
fondamentale, affinché la parola sia quella giusta –Carver revisionava i suoi
racconti anche trenta volte, amava pasticciarci,
come lui stesso diceva; lo stesso vale per i romanzi di Fitzgerald, dove i
pezzi erano “rivisti e mediati da tre a sei volte”; ma anche per Flannery O’Connor
e Hemingway e Wallace e altri milioni di scrittori.
Certo. Questa
precisione non è affatto facile, proprio perché le parole sono un mezzo umano
limitato. Virginia Woolf scriveva che “le parole non vivono nei dizionari,
vivono nella mente”,dove “vagano qua e là, innamorandosi
e accoppiandosi”. Un’immagine molto bella. Che rende perfettamente l’idea di
quanto sia difficile accalappiare certe immagini e trasformarle in bianco e
nero sul foglio. Le parole immiseriscono le cose più importanti, come dice
Stephen King, “rimpiccioliscono cose che finché erano nella vostra mente
sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando
vengono portate fuori”. Riassume molto bene Walter Benjamin: “L’opera è la
maschera mortuaria dell’idea”.
Sembra quindi che il nostro rapporto con le parole sia un
rapporto difficile a prescindere. Non riusciremo mai ad avere con loro un’unione
felice, piuttosto saremo condannati ad esserne schiavi e ingabbiati. E non solo
scrivendo, ma anche –e soprattutto- parlando. Nei dialoghi quotidiani, infatti,
non è possibile tornare indietro, cancellare. E nemmeno mettere tra parentesi. Uno
scenario terrificante, se ci mettiamo a pensarlo.
Per me la soluzione è una sola. E me la dà, di nuovo,
Carver:
“ Se non si riesce, dico io, a rendere quello che si
scrive al meglio delle nostre possibilità, allora che si scrive a fare?[…]
Cerca di farlo meglio che puoi, mettici dentro tutto il tuo talento, ma poi non
ti giustificare, non cercare scuse. Risparmiaci i lamenti e le spiegazioni”.
Giusto. Mi piace pensarlo in generale, come assioma di
una vita: fare tutto al meglio delle nostre possibilità.
Altrimenti, che senso ha?
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