Wallace.
Un
uomo che molti, prima ma anche dopo la sua morte, hanno divinizzato. Solo
leggendolo si può capire perché.
Aggettivi per
Wallace:
irriverente
sarcastico
polemico
grande
immortale
importante
…l’elenco
potrebbe continuare per ore.
E nessuno sarebbe
per intero Wallace e tutti sarebbero Wallace intero.
Personalmente
amo le sperimentazioni linguistiche e quelle narrative. Anche se quello che
cerco in un racconto, alla fine, è l’emozione. Emozionarmi per me è il vero
leggere, che non significa affatto piangere. Ma mettere in moto qualcosa nel
mio cervello. Far sì che il libro sposti i “mobili della mia casa”, come ha
sentito dire da Bajani, che mi faccia
venire il dubbio che ci sono mobili, nel mio cervello, che si possono spostare,
anche se inizialmente la cosa ti lascia straniato.
Wallace lo
fa.
Questo libro
è una raccolta postuma di inediti, dove confluisce anche la trascrizione del
discorso tenuto da W. al Kenyon College nel 2005 e che dà il titolo alla
raccolta. Le maturità di ogni testo sono differenti, dunque. Si parte da
racconti scritti nel 1984 –tra cui la sua prima opera pubblicata, Il pianeta Trillafon e la Cosa Brutta- fino a racconti più recenti e più simili alla sua
opera più famosa, Infinite Jest. Nella postfazione si spiega la
logica con cui sono stati messi insieme. Io la trovo una raccolta eterogenea,
un po’ come lo stile di Wallace in generale, dove un più sarcastico e
sperimentalista Wallace si affianca a un più giovane ed emozionante Wallace. E
va da sé che io preferisca questo ultimo.
Ci sono
racconti che ammiro solo perché sorprendenti, irriverenti e perché mi ispirano
a sperimentare –cosa buona e giusta. Un po’ come Barthelme, rompe gli schemi
mentali tradizionali. Ti libera. Ma Wallace ci aggiunge anche un buffetto sulla
guancia, ogni tanto. E una defibrillazione cardiaca. Rende la lettura
un’avventura, ma non trasportandoci,
come un Salgari o un London. Semplicemente mettendo una parola dietro un’altra.
Accendendo quel pulsante che -ricorda Murakami- si trova sul pannello della
coscienza. ON.
Crollo del ’69 è un racconto terribilmente sarcastico, ma
che adoro per via di questa cosa che fa, di questo suo scrivere il dialogo tra
pensieri. Salta da una testa all’altra dei suoi personaggi, cambiandone il
linguaggio, adattandolo: bravissimo.
Ordine e fluttuazione a Northampton ti fa spalancare gli occhi
del cervello, ti conduce velocemente verso stradine intricate. Da cui io non
sono uscita.
Stesso
discorso per Altra matematica.
Problema di orientamento mio, si vede.
Ma.
Ma c’è Salomon Silverfish. Un mix intricato di
humour e profondità mostruosa. Lancinante, in alcuni punti. Terribilmente
romantico –ma MAI MAI
sdolcinato- nel dialogo di Sophie, la moglie in fin di vita del controverso
Solomon, personaggio tutt’altro che positivo:
“È mio marito e io e lui siamo uniti da una
cosa chiamata amore che, casomai non l’aveste ancora sentita nominare, non è
solo un sentimento, è un modo di vivere la vita con una persona, e la vostra
Sophie malata è fatta di questo amore, di questa vita e di questo Silverfish, e
la mia vita è la sua e tutt’e due siamo quello che siamo grazie all’altro”.
E lo
splendido Il pianeta Trillafon e la Cosa Brutta. Incredibile come possa raccontare la depressione con
dovizia di particolari senza mai scendere nel banale o nel patetico. Una cosa
da vero supereroe.
“Non so davvero se la
Cosa Brutta sia davvero depressione”
scrive. Continua poi: “Uno della
televisione con lo scilinguagnolo ha detto che secondo certi è come sott’acqua,
sotto una massa d’acqua che non ha superficie, almeno per te, che qualunque
direzione prendi trovi soltanto altra acqua, niente aria fresca, né libertà di
movimento, solo restrizioni e soffocamento, e niente luce. ( Non so quanto sia
azzeccato dire che è come essere sott’acqua, ma provate a immaginare il momento
in cui vi rendete conto, in cui improvvisamente
capite che per voi non c’è superficie, che potete nuotare finchè vi
pare, tanto lì dentro ci affogate […]”
Ultimo pezzo è, come ho detto, la trascrizione
del discorso per i laureandi. Che potete trovare integralmente qui:
De Lillo,
nella breve prefazione, scrive: “C’è
sempre un lettore di più a rigenerare quelle parole. Le parole non smetteranno
di pervenirci”. Così come Manguel scrisse: “Ogni lettore esiste per assicurare a un certo libro una piccola
immortalità. La lettura è, in tal senso, un rito di rinascita”.
Mi piace
vederla così.
Ma senza
troppi sentimentalismi.
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