Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

giovedì 21 novembre 2013

Questa è l'acqua, David Foster Wallace


Wallace.
Un uomo che molti, prima ma anche dopo la sua morte, hanno divinizzato. Solo leggendolo si può capire perché.
Aggettivi per Wallace:

irriverente
sarcastico
polemico
grande
immortale
importante

…l’elenco potrebbe continuare per ore.
E nessuno sarebbe per intero Wallace e tutti sarebbero Wallace intero.
Personalmente amo le sperimentazioni linguistiche e quelle narrative. Anche se quello che cerco in un racconto, alla fine, è l’emozione. Emozionarmi per me è il vero leggere, che non significa affatto piangere. Ma mettere in moto qualcosa nel mio cervello. Far sì che il libro sposti i “mobili della mia casa”, come ha sentito dire da Bajani, che  mi faccia venire il dubbio che ci sono mobili, nel mio cervello, che si possono spostare, anche se inizialmente la cosa ti lascia straniato.
Wallace lo fa.
Questo libro è una raccolta postuma di inediti, dove confluisce anche la trascrizione del discorso tenuto da W. al Kenyon College nel 2005 e che dà il titolo alla raccolta. Le maturità di ogni testo sono differenti, dunque. Si parte da racconti scritti nel 1984 –tra cui la sua prima opera pubblicata, Il pianeta Trillafon e la Cosa Brutta- fino a racconti più recenti e più simili alla sua opera più famosa, Infinite Jest. Nella postfazione si spiega la logica con cui sono stati messi insieme. Io la trovo una raccolta eterogenea, un po’ come lo stile di Wallace in generale, dove un più sarcastico e sperimentalista Wallace si affianca a un più giovane ed emozionante Wallace. E va da sé che io preferisca questo ultimo.
Ci sono racconti che ammiro solo perché sorprendenti, irriverenti e perché mi ispirano a sperimentare –cosa buona e giusta. Un po’ come Barthelme, rompe gli schemi mentali tradizionali. Ti libera. Ma Wallace ci aggiunge anche un buffetto sulla guancia, ogni tanto. E una defibrillazione cardiaca. Rende la lettura un’avventura, ma non  trasportandoci, come un Salgari o un London. Semplicemente mettendo una parola dietro un’altra. Accendendo quel pulsante che -ricorda Murakami- si trova sul pannello della coscienza. ON.
Crollo del ’69 è un racconto terribilmente sarcastico, ma che adoro per via di questa cosa che fa, di questo suo scrivere il dialogo tra pensieri. Salta da una testa all’altra dei suoi personaggi, cambiandone il linguaggio, adattandolo: bravissimo.
Ordine e fluttuazione a Northampton ti fa spalancare gli occhi del cervello, ti conduce velocemente verso stradine intricate. Da cui io non sono uscita.
Stesso discorso per Altra matematica. Problema di orientamento mio, si vede.
Ma.
Ma c’è Salomon Silverfish. Un mix intricato di humour e profondità mostruosa. Lancinante, in alcuni punti. Terribilmente romantico –ma MAI MAI sdolcinato- nel dialogo di Sophie, la moglie in fin di vita del controverso Solomon, personaggio tutt’altro che positivo:
È mio marito e io e lui siamo uniti da una cosa chiamata amore che, casomai non l’aveste ancora sentita nominare, non è solo un sentimento, è un modo di vivere la vita con una persona, e la vostra Sophie malata è fatta di questo amore, di questa vita e di questo Silverfish, e la mia vita è la sua e tutt’e due siamo quello che siamo grazie all’altro”.   

E lo splendido Il pianeta Trillafon e la Cosa Brutta. Incredibile come possa raccontare la depressione con dovizia di particolari senza mai scendere nel banale o nel patetico. Una cosa da vero supereroe.
Non so davvero se la Cosa Brutta sia davvero depressione” scrive. Continua poi: “Uno della televisione con lo scilinguagnolo ha detto che secondo certi è come sott’acqua, sotto una massa d’acqua che non ha superficie, almeno per te, che qualunque direzione prendi trovi soltanto altra acqua, niente aria fresca, né libertà di movimento, solo restrizioni e soffocamento, e niente luce. ( Non so quanto sia azzeccato dire che è come essere sott’acqua, ma provate a immaginare il momento in cui vi rendete conto, in cui improvvisamente  capite che per voi non c’è superficie, che potete nuotare finchè vi pare, tanto lì dentro ci affogate […]
 Ultimo pezzo è, come ho detto, la trascrizione del discorso per i laureandi. Che potete trovare integralmente qui:

De Lillo, nella breve prefazione, scrive: “C’è sempre un lettore di più a rigenerare quelle parole. Le parole non smetteranno di pervenirci”. Così come Manguel scrisse: “Ogni lettore esiste per assicurare a un certo libro una piccola immortalità. La lettura è, in tal senso, un rito di rinascita”.

Mi piace vederla così.

Ma senza troppi sentimentalismi.

                                             

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