Da dove nasca
un romanzo, se dalla realtà o dalla finzione, ai fini del romanzo stesso poco
importa. Se il romanzo funziona, funziona. E viceversa. Quindi non è la
componente autobiografica di Scogliera
che prenderò in considerazione, adesso che mi accingo a scrivere una di quelle
che io mi ostino a chiamare recensioni. Perché nel mio concetto di narrativa
non è mai quello che accade, ma come è stato scritto. Va detto che seguo una
scuola molto precisa.
Questo di Olivier Adam è un romanzo che potrei
giudicare per punti a favore e punti a sfavore, una cosa che
generalmente non faccio. Ma qui mi sembra necessario, perché, se da una parte
mi ha deluso, dall'altra invece mi ha coinvolto, come in precedenza hanno fatto
i suoi racconti.
Procedere
come se scrivessi un catalogo non è poi molto bello, ma in questo caso non è
una scelta del tutto casuale.
Inizio con i
punti a sfavore.
1.
La
disperazione, la morte, la sofferenza sono troppo presenti. Bagnano ogni
foglio, rendendolo pesante perfino da girare. In centocinquanta pagine si
suicidano tre persone care al protagonista. La madre –il suo suicidio darà
inizio alle inevitabili conseguenze disastrose della sua vita-, uno dei
migliori amici di suo fratello Antoine, Nicolas, e infine Lèa, una delle donne
di cui si innamora. Tutti gli altri protagonisti annegano nell'alcool, vengono
consumati da tumori nel silenzio e nella solitudine, rischiano di morire di
anoressia. Solo per citarne alcuni. Ora, io non sono affatto per il lieto fine
e l’allegria forzata, amo Carver e le sue short stories depressive, ma qui la
concentrazione di fantasmi –ciò che realmente sono nel romanzo- è forse
eccessiva e appare un filino forzata. È
una lunga lista di lapidi. Molto lunga per un ragazzo di trentuno anni. Anche
la realtà –se di realtà si tratta- risulta troppo pesante se concentrata in
centocinquanta pagine.
2.
Alcuni
personaggi secondari sono costruiti secondo cliché fin troppo evidenti, come
Nicholas o Lorette.
3.
La
morte di Lèa è un trucchetto che Carver definirebbe da quattro soldi. Nomina la
sua morte sin dai primi capitoli e poi ce la ripropone spesso, senza accennare
ad altro se non al nome. È solo negli ultimi capitoli che ci dice chi è e cosa
è successo. Cerca quindi di creare questo tipo di tensione per incollare il lettore
alle pagine spingendolo a chiedersi: chi è Lèa? Come sarà morta? Ma poi si
gioca tutto in poche pagine. Non ce ne spiega fino in fondo l’importanza, se ce
ne è una. Il trucco del mago è svelato, si vede lo specchio e la magia…beh, non
è più magia. Peccato.
4.
Usa
in quasi tutti i capitoli degli elenchi infiniti. In particolare, il capitolo
su Lorette è quasi un album fotografico: uno scatto dietro l’altro. La cosa a
me piace, beninteso, ma andrebbe centellinata, mentre lui se ne approfitta,
spezzando la prosa fin troppe volte, rendendola una di quelle danze robotiche che andavano tanto negli anni ottanta. Stona con la sua particolare voce
malinconica, che avrebbe bisogno di più descrizioni, di una prosa più rilassata
e di meno...elenchi.
Dall'altra
parte dello specchio giocano le stelline e i pollici alzati.
1.
A
tratti usa delle belle immagini. E le descrizioni del mare, delle scogliere,
della moglie e della figlia che giacciono addormentate l’una accanto all’altra,
sono dolci, calde, sincere. Ci sono frasi che mi hanno colpito, come ad esempio
“il sole che gli morde la guancia” mentre dorme in auto o la figura della nonna
che “affiora e si stende su tutto come un balsamo”. Solo per scriverne alcune.
2.
I
sentimenti per Claire –moglie- e per Chloè –figlia- sono belli, puri, onesti,
senza troppi sentimentalismi. Le rende reali e vivide, sebbene stiano dietro il
palco per tutto il tempo.
3.
La
sua voce mi piace. Mi piace molto. È come se la sentissi profonda e stanca, ma
capace di raccontarti ancora mille storie prima di dormire. È una voce che è un
abbraccio. Ed è una voce che vorresti abbracciare.
4.
La
trama in sé, l’idea di ripercorrere l’ infanzia e l’adolescenza attraverso i
suoi fantasmi, che talvolta vede davvero come quello della madre, è molto
buona. Un romanzo-ricordo, che si spalma sul presente e influenza il futuro.
Una domanda che nasce dal profondo –come ho fatto a sopravvivere?, come ho
fatto a rimarne sempre in equilibrio e non cadere tanto da uccidermi?
L’ultimo
capitolo è molto appassionato e, anche grazie all'anafora, fa chiudere le pagine
con un certo dispiacere.
Mi resta in
bocca un sensazione strana, indefinita. Come qualcosa di gustoso che è stato
mal cucinato.
Posso sempre
attendere di leggere gli altri suoi romanzi. E vediamo stavolta come va…
Nessun commento:
Posta un commento