Cerco di
ricordare se è la prima volta. La risposta è sì: il mio primo faccia a
faccia con un Nobel. Certo, non sono in prima fila, mi toccano le gradinate -del Duomo di Pietrasanta- , ma è lo stesso un piccolo e privato onore
ascoltarlo.
Hanno rinviato
l’evento di un’ora per dare a tutti la possibilità di assistere- il programma
prevedeva l’incontro nella piccola chiesa di Sant'Agostino, dove sarebbe
realmente entrata solo un terzo, forse meno, della gente in fila- . L’evento: le Anteprime.
Mentre
aspetto, carta e matita in mano,
faccio il mio gioco preferito, guardare le scarpe della gente. Ho questa
convinzione radicata, che la scarpa dica molto sul tipo di persona che la
indossa. Qui le scarpe sono tutte differenti: nessuna élite, ma un eterogeneo
gruppo di persone, sesso, condizione, età differenti, tutti in attesa, tutti
per Pamuk.
Ed eccolo che
arriva sul palco, il Nobel, che quasi te lo aspetti luccicante come una moneta
preziosa, niente a che fare con
quest’uomo normalissimo, emozionato e titubante.
Prende la
parola il suo editore, Einuadi, e il loro prologo è tutto per Istambul, per
quelle rappresaglie, per quella paura della guerra civile che tanto lo
atterrisce e disarma in questi giorni. Ammette di essere qui con il corpo e là
con il cuore.
Io, da
ascoltatrice, avverto questa dicotomia e non riesco a creare la mia personale
connessione all'inizio: sarà il traduttore? Sarà il viavai di gente continuo?
Sarà che sono lontana?
Ma quando si
entra nel vivo, quando inizia a parlare del suo libro, “Il museo
dell’innocenza”, ecco che i nostri fili si allacciano e io sono pronta a farmi
trascinare in questo viaggio verso la Turchia.
«Il museo è
vero» dice.
E io non
capisco.
Mi ci vuole
davvero molto tempo -molte parole- per arrivare alla comprensione di questo
duplice progetto, studiato per anni e finito di realizzare solo quindici mesi
fa.
“Il museo
dell’innocenza” è un libro che parla di un uomo innamorato. E di tutto ciò che
ruota intorno all'amore. O Amore. Quindi felicità, rabbia, frustrazione. Il
protagonista, Kemal, nel corso del romanzo raccoglierà gli oggetti che per lui
rappresentano questa passione -osteggiata- verso la donna amata.
Ma mentre
scriveva, Pamuk non aveva in mente solo il romanzo: davanti a lui c’era la
voglia di creare un luogo fisico per questo suo personaggio: un museo, appunto.
Il viaggio è
duplice, allora: c’è “Il museo” romanzo e il museo reale, che contiene gli
oggetti raccolti da Kamal: entrando dentro il museo entri dentro il romanzo e
viceversa. Ma sono i sensi coinvolti ad essere differenti. Resta il fatto che
questi oggetti incarnino una storia, la raccontino.
Il romanzo sconfina nella realtà: Kemal chiede
al suo amico Pamuk di creare per lui il museo. E Pamuk esegue gli ordini del
suo personaggio. Non solo. Crea un catalogo museale, “L’innocenza degli
oggetti”, che è di per sé strutturato come un romanzo.
«I musei mi
piacciono», afferma Pamuk. Ma troppo spesso, specie quelli orientali, sono una
dichiarazione politica. Non sono solo una sede artistica, ma anche politica.
Guardando un museo in Cina, ad esempio, non puoi che restare stupito
dall'immensità, dalla floridezza, e finire per elogiare la Nazione. Ma non premia l’individualità, non ti dice
niente sul cinese.
Il suo
progetto vuole fare questo, invece, premiare l’individualità. Perché se mai c’è
un parallelo tra museo e arte della scrittura è che entrambi fanno vedere i
dettagli minuti che compongono la vita.
Arriviamo
quindi alla vera anteprima. La domanda è: cosa c’è nel futuro di Pamuk, dopo
un’assenza di anni?
C’è ancora
Istambul, afferma. E non potrebbe essere altrimenti, dato che è nato e vissuto
lì per sessant'anni. I suoi romanzi sono tutti fortemente localizzati -la
critica lo ha attaccato molto per questo-, ma Pamuk dichiara che sebbene per
lui inizialmente sia stata una cosa naturale, spontanea, ambientare i suoi
romanzi lì, adesso ha raggiunto la consapevolezza che era proprio questa la sua
intenzione: descrivere l’umanità dentro e attraverso Istambul.
L’idea del
romanzo in scrittura è di trattare il tema dell’emigrazione e
dell’immigrazione. Il suo protagonista emigra dall'Anatolia a Istambul negli
anni sessanta per aiutare il padre a vendere yogurt per le strade della città
turca. E tratta dei sogni ad occhi aperti che fa durante i venti chilometri a
piedi che giornalmente percorre per andare a lavoro.
Per un
romanzo di questo tipo la ricerca è fondamentale. Fare i compiti con diligenza
è la base per la costruzione di ogni buon romanzo. E così ha ingaggiato anche
assistenti che lo aiutassero nel compito di intervistare e raccogliere più
dettagli possibili sulla vita che conducevano allora quegli immigrati.
Avrebbe
voluto parlare ancora, Pamuk. Avrebbe dovuto, a mio parere. I tempi, però,
vanno rispettati. Ho notato la delusione -condivisa- nelle facce della gente
attorno a me.
Resta il
fatto che sia stato un incontro illuminante.
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