Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

martedì 1 ottobre 2013

Orhan Pamuk, Anteprime a Pietrasanta

Cerco di ricordare se è la prima volta. La risposta è sì: il mio primo faccia a faccia con un Nobel. Certo, non sono in prima fila, mi toccano le gradinate -del Duomo di Pietrasanta- , ma è lo stesso un piccolo e privato onore ascoltarlo.
Hanno rinviato l’evento di un’ora per dare a tutti la possibilità di assistere- il programma prevedeva l’incontro nella piccola chiesa di Sant'Agostino, dove sarebbe realmente entrata solo un terzo, forse meno, della gente in fila- . L’evento: le Anteprime.
Mentre aspetto, carta e matita in  mano, faccio il mio gioco preferito, guardare le scarpe della gente. Ho questa convinzione radicata, che la scarpa dica molto sul tipo di persona che la indossa. Qui le scarpe sono tutte differenti: nessuna élite, ma un eterogeneo gruppo di persone, sesso, condizione, età differenti, tutti in attesa, tutti per Pamuk.
Ed eccolo che arriva sul palco, il Nobel, che quasi te lo aspetti luccicante come una moneta preziosa, niente  a che fare con quest’uomo normalissimo, emozionato e titubante.
Prende la parola il suo editore, Einuadi, e il loro prologo è tutto per Istambul, per quelle rappresaglie, per quella paura della guerra civile che tanto lo atterrisce e disarma in questi giorni. Ammette di essere qui con il corpo e là con il cuore.
Io, da ascoltatrice, avverto questa dicotomia e non riesco a creare la mia personale connessione all'inizio: sarà il traduttore? Sarà il viavai di gente continuo? Sarà che sono lontana?
Ma quando si entra nel vivo, quando inizia a parlare del suo libro, “Il museo dell’innocenza”, ecco che i nostri fili si allacciano e io sono pronta a farmi trascinare in questo viaggio verso la Turchia.
«Il museo è vero» dice.
E io non capisco.
Mi ci vuole davvero molto tempo -molte parole- per arrivare alla comprensione di questo duplice progetto, studiato per anni e finito di realizzare solo quindici mesi fa.
“Il museo dell’innocenza” è un libro che parla di un uomo innamorato. E di tutto ciò che ruota intorno all'amore. O Amore. Quindi felicità, rabbia, frustrazione. Il protagonista, Kemal, nel corso del romanzo raccoglierà gli oggetti che per lui rappresentano questa passione -osteggiata- verso la donna amata.
Ma mentre scriveva, Pamuk non aveva in mente solo il romanzo: davanti a lui c’era la voglia di creare un luogo fisico per questo suo personaggio: un museo, appunto.
Il viaggio è duplice, allora: c’è “Il museo” romanzo e il museo reale, che contiene gli oggetti raccolti da Kamal: entrando dentro il museo entri dentro il romanzo e viceversa. Ma sono i sensi coinvolti ad essere differenti. Resta il fatto che questi oggetti incarnino una storia, la raccontino.
 Il romanzo sconfina nella realtà: Kemal chiede al suo amico Pamuk di creare per lui il museo. E Pamuk esegue gli ordini del suo personaggio. Non solo. Crea un catalogo museale, “L’innocenza degli oggetti”, che è di per sé strutturato come un romanzo.
«I musei mi piacciono», afferma Pamuk. Ma troppo spesso, specie quelli orientali, sono una dichiarazione politica. Non sono solo una sede artistica, ma anche politica. Guardando un museo in Cina, ad esempio, non puoi che restare stupito dall'immensità, dalla floridezza, e finire per elogiare la Nazione.  Ma non premia l’individualità, non ti dice niente sul cinese.
Il suo progetto vuole fare questo, invece, premiare l’individualità. Perché se mai c’è un parallelo tra museo e arte della scrittura è che entrambi fanno vedere i dettagli minuti che compongono la vita.

Arriviamo quindi alla vera anteprima. La domanda è: cosa c’è nel futuro di Pamuk, dopo un’assenza di anni?
C’è ancora Istambul, afferma. E non potrebbe essere altrimenti, dato che è nato e vissuto lì per sessant'anni. I suoi romanzi sono tutti fortemente localizzati -la critica lo ha attaccato molto per questo-, ma Pamuk dichiara che sebbene per lui inizialmente sia stata una cosa naturale, spontanea, ambientare i suoi romanzi lì, adesso ha raggiunto la consapevolezza che era proprio questa la sua intenzione: descrivere l’umanità dentro e attraverso Istambul.
L’idea del romanzo in scrittura è di trattare il tema dell’emigrazione e dell’immigrazione. Il suo protagonista emigra dall'Anatolia a Istambul negli anni sessanta per aiutare il padre a vendere yogurt per le strade della città turca. E tratta dei sogni ad occhi aperti che fa durante i venti chilometri a piedi che giornalmente percorre per andare a lavoro.
Per un romanzo di questo tipo la ricerca è fondamentale. Fare i compiti con diligenza è la base per la costruzione di ogni buon romanzo. E così ha ingaggiato anche assistenti che lo aiutassero nel compito di intervistare e raccogliere più dettagli possibili sulla vita che conducevano allora quegli immigrati.
Avrebbe voluto parlare ancora, Pamuk. Avrebbe dovuto, a mio parere. I tempi, però, vanno rispettati. Ho notato la delusione -condivisa- nelle facce della gente attorno a me.
Resta il fatto che sia stato un incontro illuminante.





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