Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

venerdì 11 ottobre 2013

Dei racconti

Sono giorni che ho in mente questa cosa dei racconti, che ho voglia di scriverci qualcosa su. Ma non riuscivo a trovare il filo giusto. Scrivevo due righe e poi: vuoto.
Poi ieri ecco lì la notizia del Nobel a Alice Munro, una delle scrittrici che più ho amato.
Prima volta per una scrittrice di racconti, si dice in giro.
 E la molla è scattata.
Il racconto non vende, mi disse il mio insegnante di scrittura uno dei nostri primi incontri. E io chiesi: perché? Sono ancora qui a chiedermelo. Fosse per me, il mercato editoriale avrebbe altri autori da spingere…
Amo i racconti: amo leggerli e scriverli. Sono la forma narrativa che ritengo più si avvicini alla perfezione.
Tabucchi ne parlava come di “una misura molto bella. Il romanzo è disponibile, lo si può cominciare e poi lasciare, è come avere una casa propria. Il racconto è un appartamento in affitto: se uno se ne va lo perde”.
E questo è vero sia per lo scrittore che per il lettore. Come diceva Fitzgerald il racconto si scrivono meglio in “due, tre botte, secondo la lunghezza”. Nello stesso modo si leggono.
Ed è il motivo per cui è una delle forme preferite da alcuni scrittori. La stessa Munro afferma che non aveva intenzione di diventare una scrittrice di racconti:
Cominciai a scrivere racconti perché non avevo tempo di scrivere nient'altro, avevo tre bambine, e per via del mio lavoro da casalinga. Non ho mai avuto un anno in cui lavorare alla stessa cosa”.
Pressappoco lo stesso dice Carver, che afferma di aver iniziato a scrivere racconti per circostanze della vita:
“Ero molto giovane. Mi sono sposato a diciotto anni. Mia moglie ne aveva diciassette ed era incinta. Non avevo neanche un soldo, dovevamo lavorare giorno e notte e crescere i nostri due bambini. Dovevo anche andare al college a lezioni di scrittura e mi era impossibile iniziare qualcosa che mi avesse portato via due o tre anni. Così mi decisi a scrivere poesie e racconti. Potevo sedermi ad un tavolo, iniziare qualcosa e finirla in un’unica seduta“.
Anche Tabucchi dice che scrivere racconti è “una lotta contro il tempo. E ha bisogno di un lavoro di oreficeria”.
Niente di più vero. Di un racconto (ben scritto) è la precisione dell’intreccio a farne un tessuto unico. È un cerchio di Giotto, senza sbavature.
Senza arrivare all’affermazione di Bierce –Un romanzo: un racconto gonfiato-, posso però affermare che il racconto, sul piano narrativo, non ruba nulla al romanzo. Tutt’altro.
Flannery O’Connor affermava che “breve non vuol dire inconsistente. Seppur breve, un racconto deve svilupparsi in profondità e trasmettere una pienezza di significato”.
Il fascino che continuano a suscitarmi i racconti credo che non calerà mai. Sono un’attrattiva unica, una giostra in continuo movimento. Un palcoscenico perfetto per presentare quello che la O’Connor chiamava il mistero della personalità.
E in questo la Munro è stata indubbiamente una delle migliori.
Dopotutto, è lei stessa a dire:
“Voglio che la scrittura mostri come sono complicate le cose e sorprendenti. Voglio emozionare i lettori, ma senza trucchi. Voglio che pensino sì, quella è vita. Perché è la reazione che ho io di fronte alla scrittura che ammiro di più. Una sorta di meraviglioso sbalordimento”.



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