Il Pac 750 xl si
aspettare sulla pista solo pochi secondi. Aspetto il mio turno sotto il vento
caldo dell'elica. Addio acconciatura, dico, ma nessuno mi sente e non riesco a
far ridere nemmeno me.
Una volta partiti però
mi invade una strana tranquillità. Sono ben imbracata,dopotutto, anche se so
che le ovaie ne risentiranno. L'aereo sale rapidamente in quota. Nemmeno
l'altitudine e le orecchie che iniziano a fischiare mi mettono in agitazione. A
confondermi c'è anche il rumore del motore che va a coprire quello sordo dei
miei battiti.
Sotto di me i campi
rettangolari, le strade e le macchine si rimpiccioliscono fino a che non riesco
a scorgere la linea d'orizzonte e il mare. Guardo dal finestrino estasiata. E
poi non è che possa fare molte altre cose, nemmeno girarmi, lo spazio è
strettissimo. Qualcuno si lamenta per il caldo e una ragazza apre il portellone
per far entrare un po' d'aria fresca, tranquilla, come se fossimo in auto e non
su un aereo che vola a 3000 metri a una velocità di 200 chilometri orari.
Mancano pochi minuti
al lancio: Il mio migliore amico per
trenta minuti mi stringe ancora un po' le cinture, si aggancia a me e mi infila
gli occhiali. Ho il dovere di ricordargli di fare con calma e non dimenticare
nulla. L'aria è rarefatta, sulla pelle il freddo è asciutto, e anche la
tensione è sparita del tutto, si è scomposta in particelle più piccole, staccate
via dal corpo come scaglie, diluendosi nell'aria. Scivoliamo veloci dal nostro
posto fino all'apertura del portellone. Ho le gambe nel vuoto, il vento sul
viso, mi sento sospesa, corpo e mente. Mi concentro sulla posizione da tenere,
testa all'indietro e gambe sotto l'aereo. Mi ritrovo nel vuoto senza sapere
come ci sono arrivata. Una capriola in aria e stiamo precipitando. Scendiamo a
50 metri al secondo e la pelle del viso mi tira tanto che ho paura che prima di
toccare terra mi si staccherà. Penso a quell'istante in cui ti tuffi ed entri
in contatto con la superficie dura del mare, quando il naso si riempie di acqua
e il sale pizzica la gola, e non riesci a respirare. Ma qui il tempo si dilata,
elastico, e quell'istante è un minuto intero in cui tutti gli elementi della
terra sono lì con me: l'aria che mi abbraccia forte, l'acqua in lontananza, la
terra ai miei piedi, il fuoco nelle vene. E capisco che se non riesco a
respirare non è per paura, ma per lo stupore di avere il mondo ai miei piedi e
per la sensazione, così forte, di riuscire anche solo per un istante a
dominarlo. Il corpo scompare, si annulla per le forze che premono,
contrastanti, l'una a spingere verso il basso, l'altra a sorreggerti.
Una tocco sulla
spalla mi ricorda del ragazzo-video
che mi sta di fronte, ma io non voglio sorridere alla me che guarderà il video,
voglio regalarle per sempre quello sbalordimento, quel senso degli opposti che scopro
dentro di me: paura e sicurezza, immobilità e movimento, cielo e terra, sogno e
realtà. Tutto quel mondo rinchiuso tra le mie mani, che si muovono libere
nell'aria.
È il colpo del paracadute
che si apre a riportare indietro i mie pensieri, a ricordarmi dove sono. E chi sono.
Saliamo di qualche
metro per poi discendere nuovamente, un declinare che adesso appare dolce,
rilassato.
Il mio migliore amico per ancora dieci minuti mi fa la mappa di quello che sta sotto ai
miei piedi. Mi indica l'hangar, parlando in continuazione, e finge di farmi
tenere il paracadute per un po'. Mi faccio trattare come una bambina, lanciando
anche un gridolino per una sua brusca virata.
Arriviamo a terra e
siamo fermi dopo un solo metro sull'erba. Ci rimettiamo in piedi e mi stupisco di tenermi
tanto bene sulle gambe. Tolti gli occhiali e recuperata la stoffa del
paracadute, mi allontano con passo fermo: non mi sono mai sentita meglio. Con
la mente pulita il mondo sembra più brillante, più vero.
Gli occhi scivolano
in su ancora un attimo. L'azzurro è così intenso e fermo.
Da oggi so che
guardare il cielo non sarà più la stessa cosa.
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