Viole nere è una raccolta di sette racconti e quarantanove
poesie.
È un libro che nasce con un handicap, quello del nome, legato a
Raymond Carver, che in tanti hanno battezzato come maestro della nuova
narrativa americana.
È quindi molto difficile, direi impossibile, non fare confronti.
Tess, moglie di Carver fino alla sua morte avvenuta nel 1988, è principalmente
una poetessa. La sua produzione poetica è ricca, a tratti estremamente profonda
e immaginifica. Sentire: è questo il verbo che più di ogni altra cosa prevale
leggendole.
Ma la vera prova che Tess non supera in questo libro sono i racconti.
I protagonisti sono gli stessi di Carver: uomini e donne ripresi nel loro
quotidiano, legati a vite qualsiasi i cui frammenti vengono ritratti nel
momento in cui si affacciano su un baratro. L’abilità di Carver è sempre stata
quella di non mostrare quasi mai la loro caduta, ma di farcela intuire, spesso.
Tutto il non detto riempie le pagine e trabocca dal foglio. È soprattutto
questo che anche Tess cerca di fare: non dire. E, purtroppo, ci riesce fin
troppo bene, ancorando i suoi racconti, non riuscendo a trasmetterli nel cuore
del lettore fino in fondo. Resta ben
poco dopo la lettura: un vago senso di confusione dovuto al tentativo di scavare
una terra troppo dura.
Il suo stile è pietosamente impreciso. Le parole – l’unica cosa
che abbiamo, diceva Carver- non sono selezionate. I suoi racconti avrebbero
avuto bisogno di un rastrellamento degli inutili. Tutto quello che c’è di vero
e onesto, a tratti, nelle sue poesie non riesce a riportarlo in prosa,
sovraccaricandola di un tono che si sente chiaramente non appartenerle.
L’ultimo racconto è quello che fa crollare definitivamente la
raccolta. È una correzione di un resoconto, come la narratore afferma alla
prima riga. Il resoconto è quello del signor Gallivan, continua, mediocre
scrittore in cerca di fama. Il resoconto è Cattedrale, uno dei racconti più
famosi di Carver.
È una prova in cui solo un suicida si sarebbe cimentato: perché
è proprio qui che si misura la incolmabile distanza. Mentre Carver riesce in
modo brillante a dare una profondità che commuove all'apparente superficie della narrazione di
una visita di un cieco a casa sua, Tess si impegna –con molta fatica e pochissima resa- nella correzione degli errori del primo narratore, obbligandoci quindi al
confronto. C’è qualcosa di eccessivamente frettoloso nelle sue frasi e alla
fine viene divelto il tema centrale, quello morale. Il suo racconto resta privo
di qualsiasi finale, dove non succede nulla e nessuno impara nulla.
Resta vaga l’impressione che, se Tess si fosse impegnata meno a
imitare lo stile del marito, forse l’avremmo letta più volentieri.
E chiusa l’ultima pagina verrebbe voglia di dirle, come lo
stesso Carver forse avrebbe fatto: niente trucchi da quattro soldi…
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