Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

venerdì 13 settembre 2013

Claudio Magris- Dialoghi sull’uomo, Pistoia 2013. Il viaggio: andata o ritorno?



Il viaggio è scoperta. Scoperta di sé, degli altri, della storia che si stratifica nel paesaggio o nel monumento che stai guardando, di tutto quello che è il mondo sensibile e intelligibile. Il viaggio è tutto, alla fine. Perfino l’immobilità dell’anima, a suo modo, è un viaggio.
Un discorso, quello di Magris, che apre molte porte e ne chiude pochissime, proprio per la natura stessa del tema trattato. Il viaggio è movimento, in tutte le sua accezioni. Il viaggio è la vita stessa, un albero con le sue ramificazioni.
Magris parte dal concetto di viaggio primario, il viaggio fatto con le valigie in mano e ti porta ad esplorare luoghi sconosciuti. In questa accezione allora è scoprire, ammirare, arricchirsi. È vedere le cose da una precisa prospettiva, la propria. Il volerlo comunicare, poi, è alla base della letteratura. O delle arti in generale.  E quindi il viaggio fisico si intreccia con quello metaforico, quello che avviene dentro se stessi, diventando a sua volta metafora della vita.
Per questo uno dei migliori esempi, il più antico e comunque sempre contemporaneo, è l’Odissea. L’Ulisse di Omero e tutti gli Ulisse post omerici.
Le forme dell’Odissea sono principalmente due: quella circolare -dove Ulisse torna a Itaca confermato, nonostante tutto, nella propria identità- e quella rettilinea, dove il ritorno non è possibile e Ulisse incarna l’uomo che si perde per la strada e che produce una cattiva infinità in cui diventa continuamente un altro, fino ad arrivare ad essere Nessuno, come già aveva intuito Omero.
La forma circolare la incarna perfettamente l’Ulisse di Joyce, mentre Omero fa sì tornare Ulisse a casa, ma solo per farlo subito ripartire -ne parla con Penelope nella scena che segue il colloquio coniugale.
Quindi ogni Odissea pone la grande domanda se si attraversi la vita diventando sempre più se stessi -ovvero cambiando, ma rimanendo fedeli alla propria identità- oppure ci si perda e ci si snaturi. Domanda a cui non c’è una sola risposta, ma mille.
Magris sottolinea come il viaggio migliore sia quello senza meta, zingaresco,pronto a prendere ogni tipo di deviazioni, come un cane che vaga per la città inseguendo gli odori. 
Parla ancora, senza stancarsi, di tutti gli altri viaggi: il viaggio ultimo, quello verso la morte; il viaggio a piedi, indicato tempo fa come terapia per la pazzia; il viaggio per varcare confini, per varcare le barriere, per non sentire più l’altro come altro, ma capirlo, trovarci qualcosa di sé, non viaggiando dunque in modo immorale, cioè come spettatori.
Conclude con questa postilla: i viaggi mancati e che hanno segnato la nostra esistenza.
 Assistere al discorso di Magris è stata un’esperienza unica e mi ha fatto riflettere sui confini che ancora devo varcare, su tutte le porte che devo ancora aprire prima di giungere alla fine del mio viaggio. 
E, soprattutto, mi ha fatto capire quanta voglia io abbia di aprirle




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