Il viaggio è scoperta. Scoperta di sé, degli altri, della storia che si
stratifica nel paesaggio o nel monumento che stai guardando, di tutto quello
che è il mondo sensibile e intelligibile. Il viaggio è tutto, alla fine. Perfino
l’immobilità dell’anima, a suo modo, è un viaggio.
Un discorso,
quello di Magris, che apre molte porte e ne chiude pochissime, proprio per la
natura stessa del tema trattato. Il viaggio è movimento, in tutte le sua accezioni. Il viaggio è la vita stessa, un albero con le sue ramificazioni.
Magris parte
dal concetto di viaggio primario, il viaggio fatto con le valigie in mano e ti porta ad esplorare luoghi
sconosciuti. In questa accezione allora è scoprire, ammirare, arricchirsi. È vedere le
cose da una precisa prospettiva, la propria. Il volerlo comunicare, poi, è alla
base della letteratura. O delle arti in generale. E quindi il viaggio fisico si
intreccia con quello metaforico, quello che avviene dentro se stessi,
diventando a sua volta metafora della vita.
Per questo
uno dei migliori esempi, il più antico e
comunque sempre contemporaneo, è l’Odissea. L’Ulisse di Omero e tutti gli
Ulisse post omerici.
Le forme
dell’Odissea sono principalmente due: quella circolare -dove Ulisse torna a
Itaca confermato, nonostante tutto, nella propria identità- e quella
rettilinea, dove il ritorno non è possibile e Ulisse incarna l’uomo che si
perde per la strada e che produce una cattiva
infinità in cui diventa continuamente un altro, fino ad arrivare ad
essere Nessuno, come già aveva intuito Omero.
La forma
circolare la incarna perfettamente l’Ulisse di Joyce, mentre Omero fa sì tornare
Ulisse a casa, ma solo per farlo subito ripartire -ne parla con Penelope nella
scena che segue il colloquio coniugale.
Quindi ogni Odissea pone la grande domanda se si attraversi la vita diventando sempre
più se stessi -ovvero cambiando, ma rimanendo fedeli alla propria identità-
oppure ci si perda e ci si snaturi. Domanda a cui non c’è una sola risposta, ma mille.
Magris
sottolinea come il viaggio migliore sia quello senza meta, zingaresco,pronto a
prendere ogni tipo di deviazioni, come un cane che vaga per la città inseguendo gli odori.
Parla ancora, senza stancarsi, di tutti gli altri viaggi: il viaggio ultimo, quello verso la morte; il viaggio a
piedi, indicato tempo fa come terapia per la pazzia; il viaggio
per varcare confini, per varcare le barriere, per non sentire più l’altro come altro, ma capirlo, trovarci qualcosa di
sé, non viaggiando dunque in modo immorale, cioè come spettatori.
Conclude con
questa postilla: i viaggi mancati e che hanno segnato la nostra esistenza.
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