Ho conosciuto
James Hillman. L’ho conosciuto e me ne sono innamorata. Questo, per chi avesse
letto i suoi saggi, non sarà forse una sorpresa. Forse.
C’è chi lo
definisce il poeta dell’anima. Non a torto: il suo pensiero si costruisce
attraverso la poesia delle immagini. Questo è evidente leggendo anche uno solo
dei suoi scritti. Per me è stato il Puer Aeternus.
Non c’è
veramente nulla che io possa dire che non è già stato detto. E non è certo per
questo che lascio queste righe. Ma le parole di Hillman, esattamente come la
poesia, si stratificano nei recessi più profondi di noi. E lì restano.
Non dà
ricette, Hillman. Non espone casi clinici. Il suo è un tentativo di spostare i
nostri occhi, sempre così attaccati alle consuetudini della realtà, verso un
modo nuovo di osservare noi stessi. E lo fa attraverso gli archetipi, cioè la
radice del mito. Solo attraverso questi sarà per noi possibile “spiegarci” e
ricostruire il rapporto con la realtà. O, come lui stesso dice, il “fare
anima”.
E a cosa ci
serve, “fare anima”? Siamo scissi, ci dice. Lacerati. Questa lacerazione
provoca in noi sofferenza. Non solo, anche quelle che la psicanalisi –così
lontana, per certi versi, dal suo pensiero- chiama patologie. Ed è quindi
l’anima l’unica che può connettere le nostre metà scisse, portandoci dentro
quel “continuo albeggiare” che è poi la luce con la quale dovremmo vedere la
nostra esistenza. Ma oggi l’anima soffre, soppiantata dall’Io, che è divenuto
centro della nostra personalità. Un Io che non tollera la tensione dell’ambivalenza.
Ma l’ambivalenza, afferma ancora, è naturale, è “la reazione adeguata a una
psiche integra”. Certo non è facile reggere questo tipo di equilibrio, proprio perché
perennemente in tensione. Ma “sopportare l’ambivalenza”, come lui stesso
scrive, è l’unica via, perché “ciò che non è scisso, non ha bisogno di essere
ricongiunto”.
Ecco che qui,
magari, una ricettina avrebbe fatto comodo. Ma, ovvio, non si può. Negli ultimi
anni della sua vita, Hillman lascia la strada della terapia a due, per tentare
la strada della diffusione di questo pensiero.
Ci lascia
parole da vero poeta. Moltissime. Tra tutte, per chiudere, io ho scelto queste:
“Non c’è
giorno né notte, semmai un albeggiare continuo”.
Quel che è
certo è che tornerò a leggerlo. Difficilmente sono rimasta tanto affascinata da
un pensiero che, senza sbagliare, posso definire filosofico.
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