La guerra non
fa per me. Non mi piacciono le armi. Non mi piace la barbarie che gradualmente
si attacca alla pelle degli uomini che hanno a che fare con la guerra:
l’individuo svanisce, si dissolve; restano solo i numeri. Quei numeri sono la
conta dei cadaveri. Sono quelli che i due soldati, Murphy e Bartle,
protagonisti di questo libro, scrivono assiduamente, nella speranza che sia
qualcun altro a incrementarli, nella logica fredda e crudele del “Se muori tu
aumentano le possibilità che non muoia io”.
Non mi piace
la guerra esattamente per tutto ciò che questo libro trasmette. Ed è per questo
che è indispensabile. Un libro necessario ha più valore.
Ma Powers
rilancia, aggiunge monete al piatto. E lo fa con la scrittura incredibilmente
precisa, a tratti cruda, ma mai totalmente distaccata. È una chiarezza
sofferente. E lo fa anche con la poesia. La poesia, in questo deserto
costellato di cadaveri in putrefazione, arriva diritta al cuore.
E cadavere è
sia Murphy, che non riuscirà a tornare a casa, ma anche Bartle, sul quale la
mano impietosa del ricordo giungerà a distruggerlo, a condannarlo,
destabilizzandolo. Perché “a volte è difficile stabilirlo: la memoria è per
metà immaginazione”.
E quindi la
guerra continua anche dopo che è finita, anche dopo che tutti i cadaveri sono
stati seppelliti, le medaglie al valore consegnate e appese al muro. Continua
sull’aereo, quando la mano si stringe su un fucile che non c’è più. Continua
nella testa, che ripropone per sempre il corpo mutilato del tuo migliore amico
e che fa ammettere: “Io non lo so più come si fa a vivere lì fuori”.
Di un’onestà
straziante, Yellow Birds colpisce nel segno, tratteggiando tre personaggi
–Bartle, Murphy e Sterling- che, insieme, sono il ritratto di un solo uomo: lo
stesso Powers.
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