Non si finisce col fracassarsi il naso in terra perché si scrive, ma al contrario si scrive perché ci si fracassa il naso e non resta più altro dove andare. (A. Cechov)

giovedì 19 settembre 2013

Yellow birds, Kevin Powers

La guerra non fa per me. Non mi piacciono le armi. Non mi piace la barbarie che gradualmente si attacca alla pelle degli uomini che hanno a che fare con la guerra: l’individuo svanisce, si dissolve; restano solo i numeri. Quei numeri sono la conta dei cadaveri. Sono quelli che i due soldati, Murphy e Bartle, protagonisti di questo libro, scrivono assiduamente, nella speranza che sia qualcun altro a incrementarli, nella logica fredda e crudele del “Se muori tu aumentano le possibilità che non muoia io”.
Non mi piace la guerra esattamente per tutto ciò che questo libro trasmette. Ed è per questo che è indispensabile. Un libro necessario ha più valore.
Ma Powers rilancia, aggiunge monete al piatto. E lo fa con la scrittura incredibilmente precisa, a tratti cruda, ma mai totalmente distaccata. È una chiarezza sofferente. E lo fa anche con la poesia. La poesia, in questo deserto costellato di cadaveri in putrefazione, arriva diritta al cuore.
E cadavere è sia Murphy, che non riuscirà a tornare a casa, ma anche Bartle, sul quale la mano impietosa del ricordo giungerà a distruggerlo, a condannarlo, destabilizzandolo. Perché “a volte è difficile stabilirlo: la memoria è per metà immaginazione”.
E quindi la guerra continua anche dopo che è finita, anche dopo che tutti i cadaveri sono stati seppelliti, le medaglie al valore consegnate e appese al muro. Continua sull’aereo, quando la mano si stringe su un fucile che non c’è più. Continua nella testa, che ripropone per sempre il corpo mutilato del tuo migliore amico e che fa ammettere: “Io non lo so più come si fa a vivere lì fuori”.

Di un’onestà straziante, Yellow Birds colpisce nel segno, tratteggiando tre personaggi –Bartle, Murphy e Sterling- che, insieme, sono il ritratto di un solo uomo: lo stesso Powers.

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